sabato 29 novembre 2014

ERESIA-UTOPIA-FILOSOFIA: L'INTRECCIO


Usata nella cultura cristiana per indicare una dottrina che si allontana dalla predicazione apostolica, «Eresia» (hàiresis) è parola costruita sul verbo «hairèin», che nell'antica lingua greca significa «prendere una cosa trattenendola nel proprio ambito e, quindi, togliendola via dal luogo in cui si trovava, sì che questo prendere è uno scegliere, avendo la forza di mandare a effetto ciò che è scelto». Per il Cristianesimo l' «Eresia» è la scelta con cui si toglie via, alterandola, una cosa che appartiene al messaggio autentico di Gesù. Ma, già prima di questo messaggio, gli uomini vivono per millenni nel mondo del mito, che domina e regola la loro esistenza. E sei secoli prima di Cristo il popolo greco, per la prima volta, prende le cose del mondo, togliendole via dal loro essere interpretate dal mito e le trattiene all'interno di una «Sapienza» che non intende imporsi come abitudine sociale e istinto, ma per la sua «Verità», cioè per l'impossibilità di essere negata dalla mente dell'uomo. La «scelta» di questa sapienza, che è libera da tutto ciò che non sia la «Verità», è l' «Eresia» da cui nasce la civiltà occidentale e che ben presto prende il nome di «Filosofia». La «Verità» si impadronisce delle cose. La Filosofia è l' «Eresia» originaria. Il Rinascimento ripropone, rispetto al mito cristiano, l' atteggiamento originario della Filosofia.
Telesio, Bruno e Campanella sono appunto accusati di «Eresia» e la società cristiana prende posizione rispetto a essi in modo analogo a quello in cui la democrazia ateniese, ancora avvolta dal mito, condanna Socrate. Muoiono, Socrate e Bruno, per aver «scelto» di farsi guidare non dal mito, ma dalla «Verità». Anche Tommaso Moro viene ucciso per lo stesso motivo. Egli è un santo della Chiesa cattolica. Ma la sua opera più celebre è intitolata «Utopia», una parola da lui coniata per indicare che gli Stati esistenti, in particolare quello inglese, non sono ancora guidati dalla «Verità» quale appare all'interno della sapienza filosofica. Solo se le leggi che guidano lo Stato sono leggi della «Verità», lo Stato può esistere realmente e non in apparenza. Stati apparenti quelli che appaiono nella storia. Non Stati, ma instabilità. Come stabilità resa possibile dalla «Verità», lo Stato, ancora, non esiste, non ha ancora luogo, è ancora «senza luogo». Tommaso Moro vuole esprimere in greco questo concetto e conia la parola «Utopia», che egli ottiene unendo due parole dell'antica lingua greca: ou («non») e tòpos («luogo»). «Utopia» è il non aver ancora luogo, da parte della stabilità del vero Stato.
Anche Campanella e lo stesso Bruno procedono nella direzione di Tommaso Moro. Ma tutti insieme guardano e ripropongono il modo in cui il pensiero greco, sin dal suo inizio, e, nelle forme più splendenti e potenti, con Platone, intende il rapporto tra la «Verità» e lo Stato. La vera «Potenza» e stabilità dello Stato richiedono che esso, la «pòlis», sia guidato dalla «Verità», non dai miti e dalle fedi, come invece di fatto accade, e che dunque l'essenziale «Eresia» della Filosofia, in cui la «Verità» si manifesta, sia insieme la sua essenziale «Utopia». Questo, l' intreccio profondo di «Eresia», «Utopia», «Filosofia».

Scegliendo la «Verità» come luce delle cose, ci si propone di dare un luogo, cioè di realizzare le cose della «Verità». In questo intreccio, l' «Utopia» non ha nulla a che vedere con la fantasia irrealizzabile. Si può dire che le stelle non si trovano in mezzo alle onde e alla sabbia, che tra le onde e la sabbia non c' è un luogo per le stelle, e che, tuttavia, la loro luce guida naviganti e carovane. Si può dirlo. Ma in questo modo si perde di vista che la «Repubblica» di Platone, la res publica, la «cosa pubblica», lungi dall'esser rimasta «senza luogo», semplice fantasia irrealizzabile di un «filosofo», è divenuta invece la grande «Pòlis» in cui l' Occidente, e ormai l'intero Pianeta, consiste. 
Nell' «Eresia-Utopia» della Filosofia viene alla luce, una volta per tutte, il «Senso» della parola più semplice ed essenziale, e più terribile, il «Senso» presente in ogni luogo, il luogo di ogni luogo, il «tòpos» più decisivo per ogni pensiero e per ogni agire dell' Occidente: il «Senso» della «cosa». La «cosa» è ciò di cui ci si impadronisce per dominarla. Non dunque «la guerra è madre di tutte le cose» come dice Eraclito, ma.. «la cosa è la madre di tutte le guerre».

sabato 22 novembre 2014

SCIENZA E VERITA'


Le grandi scoperte della Biologia (Darwin ) , della Fisica (Einstein ) e della Psicoanalisi (Freud ) sono mosse dalla Falsa Convinzione che si possa tracciare un percorso con un inizio e una fine, dal «Nulla» al «Nulla». Eppure, proprio sbagliando, hanno aperto la via alla «Scienza». Per Hawking i buchi neri presenti nell'universo sono voragini in cui vanno definitivamente distrutte le cose che vi precipitano. Leonard Susskind vede in questa tesi la violazione del «Primo Principio della Termodinamica», per il quale la quantità totale di energia dell'universo rimane costante nella trasformazione delle sue forme. Ora la costanza dell'energia è il suo continuare a «Essere»; e l' incostanza delle sue forme è il loro venire a «Essere» e il loro ridiventare «Non Essere», «Nulla». Certo, il fisico si disinteressa del «Senso» dell' «Essere» e del «Nulla», ma il «Primo Principio della Termodinamica» non può disinteressarsene: lo ha dentro di sé, ne è animato. 

All'interno di quest'anima, a cui la Filosofia si rivolge sin dall'inizio, cresce la «Scienza». Si ritiene che la teoria generale della relatività di Einstein e la fisica quantistica di Heisenberg siano incompatibili. Ma si contrappongono mantenendosi entrambe all'interno del «Senso» Greco dell' «Essere» e del «Nulla»: per il determinismo di Einstein le forme di energia escono dal proprio «Esser Nulla» e vi ritornano seguendo un percorso inevitabile (determinato) e quindi prevedibile; per Heisenberg tale percorso non è né inevitabile né prevedibile; ma anche per lui le forme di energia escono e rientrano nel proprio «Nulla». Non è un caso che egli riconduca il concetto di onde di probabilità al concetto aristotelico di dynamis, «Potenza» (cioè alla possibilità reale che uno stato del mondo sia seguito da un cert'altro stato). La Filosofia sostiene spesso la tesi del carattere controvertibile della «Scienza». Anche al tema dell' in-contro-vertibilità la Filosofia si rivolge da sempre. 

Oggi, ciò che decide dove stia la «Verità» non è il costrutto concettuale delle teorie contrapposte, non è la loro incontrovertibilità ma... la loro maggiore o minore capacità di trasformare il mondo conformemente ai progetti che l' «Apparato Scientifico-Tecnologico» planetario si propone. Una «Scienza» che si affanni a dimostrare la «Verità Incontrovertibile» dei propri contenuti combatte una battaglia di retroguardia. E quanto si sta dicendo delle scienze della natura vale anche per quelle logico-matematiche. 

L'esistenza delle geometrie non euclidee, ad esempio, implica che la geometria euclidea sia una «Verità Incontrovertibile» solo in relazione ai postulati e agli assiomi su cui essa si fonda, e dunque non sia assolutamente ma relativamente «Incontrovertibile». Da quando nasce, la Filosofia pensa la «Verità» come in-contro-vertibilità, ossia come ciò contro cui non ci si può rivoltare (vertere), ma che non intende essere una costrizione transeunte e quindi violabile. La connessione tra la «Verità» e l'inviolabile «Principio di non Contraddizione» attraversa tutta la storia della cultura. 

La Filosofia ha voluto giungere in modo incontrovertibile all'affermazione dell' esistenza del «Principio», ma insieme ha reso estrema la «Fede» che è radicata nell'uomo più antico: la «Fede» che le «Cose» e l'uomo abbiano bisogno di qualcosa d'altro da esse, che le spinga sulla terra e le renda disponibili. Qualcosa d'altro che è il mondo degli antenati e dei fondatori della stirpe, il demonico, il divino : l' «Arché», il «Principio» , l’ «Origine» appunto. L' immenso e tremendo sottinteso di questa «Fede» è la convinzione che le cose, di per sé, sono incapaci di stare sulla terra, di per sé incapaci di essere sono preda del «Nulla». Cose morte. La «Morte» e il «Nulla» sono la loro culla naturale. Perché si alzino dal sepolcro occorre dar loro un' «Origine». 

Anche la «Scienza» si muove all'interno della «Fede» nell'«Origine» (ormai divenuta Fede filosofica). Dell'antica origine demonico-divina la concezione filosofica e scientifica sono trascrizioni mondane che di quell'«Origine» conservano l'essenziale. Così accade per l' «Arché» e l' origine della specie, per il «Big Bang» come origine dell'universo, per l' «Inconscio Freudiano» come origine della coscienza. E ancora: per «il lavoro, la storia, il linguaggio, il cervello», come origini della mente e della cultura. In generale, per le cause prossime e remote degli eventi. 

E perfino il «Nulla» è un succedaneo dei vecchi e nuovi dei, il «Nulla» da cui i più oggi pensano, più o meno consapevolmente, che l' esistenza abbia l' «Origine» ultima. Sì, in queste forme dell' «Origine» è presente l' intera sapienza dell'uomo. Ma, proprio perché la «Fede» nell' «Origine» porta sulle proprie spalle un fardello così gravoso, siamo sicuri che non le si debba chiedere se sia in grado di reggerlo? 


martedì 18 novembre 2014

ETICA E SCIENZA


C’è una tendenza ad avere un’ immagine della «Scienza» come semplice fornitrice di occasioni, o come semplice strumento in vista della realizzazione di scopi che non appartengono allo strumento ma, al contrario, si vede una profonda solidarietà tra «Etica e Scienza». Bisogna cominciare a chiedersi il significato di queste parole. «Etica» è una parola greca. Non che prima dei Greci non vi fossero problemi di carattere morale, sebbene, col pensiero greco, l' «Etica» acquista una connotazione che potremmo dire inaudita. I popoli vivono e credono di poter vivere meglio se si alleano con ciò che essi ritengono sia per loro la «Potenza Suprema», e questo è abbastanza naturale, poiché per vivere mi appoggio a ciò che ritengo stabile, capace di reggere. Allora, questo agganciarsi a ciò che si ritiene la «Potenza Suprema» è il vivere in un ambiente rassicurante. 
La parola «Etica» indica appunto il luogo in cui si vive, la consuetudine. «Etica» vuol dire: vivere in un luogo rassicurante perché ci si trova in accordo e non in contrapposizione con la «Potenza». Se vivo in un luogo e so che è minacciato, e so di non avere strumenti per difendermi, vado altrove. Invece «Ethos» in greco indica la consuetudine, che è insieme l' ambiente in cui ci si può difendere. Ma difendersi da che cosa? Dal dolore, dalla morte, dall'angoscia, dalla sofferenza, dai pericoli. 
Ora, con il pensiero greco, questo atteggiamento assume una radicalità , appunto , inaudita: la «Potenza» con la quale ci si allea per sopravvivere e per difendersi dal pericolo è ciò che il pensiero greco chiama «Verità». Se ci si allea con una finta «Potenza», allora l'alleanza è insicura; è quindi inevitabile che emerga l'esigenza di allearsi con ciò che è la vera «Potenza», che l' «Ethos» sia l'alleanza con la vera «Potenza». Ma per fare questo bisogna che cominci a esserci l'idea o il significato della parola «Verità». È solo perché il pensiero greco porta alla luce il significato radicale della «Verità», che ci può essere un'alleanza con la «Potenza» vera
Ora, tutto quello che abbiamo detto dell' «Etica» dobbiamo dirlo anche per la «Scienza», che non è affatto quella semplice occasione di opportunità, quella neutralità di cui si parla. No, anche la «Scienza» merita che si dica di essa ciò che già aveva detto Nietzsche: la «Scienza» nasce dalla paura, così come l' «Etica», perché difendersi alleandosi alla «Potenza» vuole dire cercare di andare oltre la paura. Ciò che noi oggi diciamo «Scienza» è lo sviluppo di tutte le tecniche messe in atto dagli uomini per non avere paura e per riuscire a sopravvivere. Qual è l' «Etica» della «Scienza»? La «Scienza» ha ed è di per sé un' «Etica». Perché ha quell'insieme di procedure che, soprattutto oggi, dà agli uomini la «Fede», la convinzione che essa sia lo strumento che più efficacemente di altri consente di allontanare la paura. Allora «Etica» significa difendersi dalla paura alleandosi alla «Potenza», che oggi viene dalla «Scienza» identificata con la «Potenza» soprattutto Tecnologica; in questo «Senso» non c' è scissione tra «Etica e Scienza». 
Nella tradizione, la vera «Potenza» è quella «Verità» il cui contenuto è soprattutto il Dio, quindi la «Potenza» di una conoscenza indiscutibile che dice in modo indiscutibile: il vero potente è Dio. Oggi non si dice più così, anche se si dice una cosa simile; è cambiato il protagonista, è cambiata la qualifica del potente. 
Oggi il vero potente è la «Tecnica». La «Tecnica» è l' erede della funzione di rassicurazione che nella tradizione veniva compiuta da Dio (Vedi Pubbl. Genn. e Febbr. 2014 in merito alla Tecnica). Da sempre, ma soprattutto nell'età moderna, ciò che si dice «Scienza» è Specializzazione, che separa un certo campo di oggetti, o di cose, da tutti gli altri e lo analizza in base a precisi criteri e metodi. L’analisi appartiene, da sempre, alla Filosofia. Quando uno scienziato considera i rapporti tra il proprio campo e la Filosofia, non parla dunque in nome della propria disciplina. Si porta sul piano della Filosofia, con maggiore o minore coscienza; vi si porta inevitabilmente, e, d'altra parte, anche quando si chiude nel proprio terreno, si appoggia pur sempre a qualcosa che gli è esterno, cioè al «Senso» che il pensiero filosofico ha attribuito alla «Cosa», all'oggetto. 
Anche gli individui seguono (e tradiscono) certe specifiche regole di comportamento. In questo «Senso» delimitano a loro volta un dominio particolare di cose, sono essi stessi, gli individui, specializzazioni. Si muovono però sempre, volenti o nolenti, all'interno delle grandi regole etiche seguite (e tradite) dai popoli a cui appartengono. Ma se oggi nemmeno a uno scienziato è consentito dominare l'intera ricchezza della propria disciplina, come può pretendere la Filosofia di comprendere addirittura il fenomeno «Scienza» nel suo insieme? O di comprendere la storia dell'Occidente? 
La Filosofia del nostro tempo tende a rispondere che questo è impossibile. E, infatti, se le cose vengono dal «Nulla» e vi ritornano, sono essenzialmente estranee le une alle altre, cioè non può esistere né essere conosciuto alcun principio che le unifichi. Il «Senso» greco della «Cosa» sta al fondamento di ogni separare, isolare, specializzarsi dell'Occidente. Oggi quel «Senso» si esprime nell'affermazione che il mondo intero è un insieme di frammenti e che la conoscenza autentica è Specializzazione. Senonché , anche questa affermazione getta uno sguardo sul mondo e ne scorge l' Essenza unificante e vede che questa Essenza è la frammentarietà stessa del mondo, la stessa divisione delle «Cose». Ciò significa che, in qualche modo, la manifestazione del «Senso» unitario del mondo è inevitabile; e che tale manifestazione continua a essere il compito della Filosofia.

mercoledì 12 novembre 2014

SCIENZA E TECNICA


La celebrazione della «Giornata per la ricerca sul cancro» (ogni anno a novembre) ha come sfondo i grandi problemi della salute e della salvezza, del dolore e della morte. La malattia e la perdizione, tanto del corpo quanto dell'anima, sono forme di impotenza. Appunto per questo, da sempre, l'uomo tenta di allearsi alle forze che ai suoi occhi appaiono come le potenze supreme. L' uomo antico e l'uomo della tradizione pensano che la «Potenza Suprema» sia il «divino». L'uomo del nostro tempo pensa invece di essere egli stesso il costruttore dell'unica forma possibile della «Potenza Suprema»: si allarga sempre di più sulla Terra la convinzione che la capacità di muovere le montagne, cioè di liberare l'uomo dalla sofferenza e dalla morte, competa alla «Tecnica» guidata dalla «Scienza Moderna» (Vedi Pubbl. Genn. e Febbr. 2014 in merito alla Tecnica). Certo, tra l'uomo vecchio e quello nuovo c' è un contrasto radicale. Che però non si deve tentare di nascondere, soprattutto ai giovani. 
Il «Senso» fondamentale del nostro tempo è appunto il contrasto tra l'antico e il nuovo modo di pensare e mirare alla «Potenza» salvifica: il contrasto, da un lato, tra l' alleanza con la «Potenza Divina», da parte dell'uomo metafisico-religioso-artistico, e, dall'altro lato, l' alleanza con la «Potenza della Tecnica» guidata dalla «Scienza moderna» e sensibile alla critica a cui il divino è stato sottoposto da parte del pensiero filosofico degli ultimi due secoli. Ma se il contrasto che ci sta dinanzi non è anche dialogo tra l'antico e il nuovo, allora ogni «Potenza», salvezza, salute, ogni essere bene e ogni benessere abbandonano sia l'uomo antico sia il nuovo. 
«Scienza e Tecnica», infatti, non possono ignorare che la loro forma di «Potenza» si trova dinanzi agli stessi problemi affrontati dalla «Potenza» che è propria del sapere religioso, metafisico, artistico del passato. Le forme sociali e culturali che ereditano i valori del passato umanistico e religioso intendono servirsi della «Scienza e della Tecnica» come uno strumento, di un mezzo il cui unico compito sia quello di perpetuare tali valori. 
Tuttavia queste forze debbono riconoscere che, proprio per far vivere i valori del passato, lo strumento con cui si fa vivere non può essere indebolito, frenato, legato. Si aggiunga che, rispetto alla continua innovazione prodotta dal sapere scientifico-tecnologico, anche forme sociali come la Democrazia, il Capitalismo e, ieri, il Socialismo reale, sono da considerare come appartenenti al passato e dunque coinvolti nel rapporto conflittuale con la «Scienza e la Tecnica». Le quali hanno anch'esse, di per sé stesse, uno scopo: la crescita indefinita della «Potenza» capace di liberare il più possibile l'uomo dal dolore e dalla morte. E ciò va sottolineato, aggiungendo che non si deve perdere di vista la destinazione tra l' «Apparato scientifico-tecnologico» e la gestione ideologica di tale «Apparato». 
E' quest'ultima la vera responsabile delle diffidenze che spesso si nutrono nei confronti della «Scienza e della Tecnica» e della loro libertà. Nessuna «Potenza» è possibile senza giustizia sociale. Un sistema sociale ingiusto provoca conflitto; il conflitto rende impotente il sistema. La «Potenza» autentica della «Scienza e della Tecnica» è inseparabile dalla «giustizia».

mercoledì 5 novembre 2014

MORALE, TRA SCIENZA E POLITICA


Oggi la Morale è interpellata, invocata, difesa da molte voci importanti. Non si sospetta neppure che essa sia un «sepolcro imbiancato». L' immoralità, e innanzitutto la violenza, non è certo una casa riempita dal sole. È un sepolcro non imbiancato. Ma in un tempo di violenza come il nostro non è immorale e dannoso insinuare il sospetto che la Morale sia un «sepolcro imbiancato»? I problemi del razzismo e dell'immigrazione vengono affrontati in termini umanitari, cioè, daccapo, morali. 
Nella cultura capitalistica si sostiene che un'azienda non può funzionare efficacemente senza Morale. Oggi lo si risente dire anche a proposito della «Politica». Ancora in nome di una comune Morale le religioni del mondo tentano di avvicinarsi tra loro. Gli intellettuali che riescono a farsi sentire esortano: in tono pensoso alcuni, altri con l'ironia e la satira. Esortano a non violare le leggi morali. 
Ma che cos'è la Morale? La complessità del problema è gigantesca. Anche gli addetti ai lavori annaspano. I benpensanti esortano, come bambini che esortano a salire su un convoglio di cui non possono conoscere il funzionamento. Tuttavia esiste un nucleo attorno al quale tendono a convergere le concezioni più disparate della Morale, cristiane e non cristiane, antiche e moderne, e che è anche il loro punto più alto. Esso afferma che un'azione è Morale quando è compiuta con retta intenzione, cioè in «Buona Fede». Anche gli atei dicono: beati gli uomini di Buona Volontà. Alcuni diranno che è un nucleo troppo ristretto; che, ad esempio, bisogna guardare, oltre alle intenzioni, anche alle conseguenze dell'agire. Però nemmeno per costoro (o per chi ritiene indispensabili i Dieci Comandamenti) un'azione è Morale se non è compiuta in «Buona Fede». Ma che significa agire in «Buona Fede»? Generalmente si risponde: significa fare ciò che si è intimamente convinti di dover fare. 
La «Buona Fede» è appunto questa convinzione. Se uno è convinto di dover sacrificare la propria vita per il bene del prossimo, e la sacrifica, costui agisce in «Buona Fede». E anche chi, convinto di doverlo fare, sacrifica un gran numero di vite umane per salvare un popolo intero. Chiediamoci: l'uomo Morale, ossia chi è convinto di dover fare ciò che fa, possiede forse una «Scienza» incontrovertibile, innegabile, necessaria, immodificabile intorno a ciò che egli deve fare? Se rispondiamo di sì, veniamo a dire che solo chi possiede questa «Scienza» può essere un uomo Morale. Agli ignoranti e alla maggior parte degli uomini sarebbe preclusa la possibilità di essere morali. Ma poi, dove mai potremmo trovare quella «Scienza»? L' uomo Morale, dunque, una «Scienza» siffatta non la possiede. Egli è sì intimamente convinto di dover fare ciò che fa, ma questa convinzione è una «Fede», e appunto per questo non si dice che egli sia in buona Scienza, ma che è in «Buona Fede». 
Ma una «Fede», qualsiasi «Fede», è una certezza smentibile, che potrebbe rivelarsi falsa, e il cui contenuto potrebbe non convincere più chi ne era convinto. Si tratta di comprendere che il dubbio non è altro che la situazione di cui abbiamo appena parlato, quella cioè dove, nella «Fede», la Coscienza ha dinanzi qualcosa che non si presenta con i caratteri di una «Scienza» innegabile e assoluta. Ma questo non significa forse che chi ha «Fede» dubita; e non prima o dopo, ma proprio nell'atto in cui ha «Fede», e proprio perché ha «Fede»? Non significa dunque che la «Fede», come pura «Fede» che riesca a liberarsi per un solo momento dal dubbio, non può esistere? Se questo è la «Fede», che ne è allora della «Buona Fede», senza di cui non c' è Morale? Dovremo dire che, come ogni fedele (ateo o religioso) anche chi è in «Buona Fede» dubita. Dubita che quello che egli crede di dover fare sia proprio quello che egli deve fare. Agisce dunque col dubbio di non star facendo quello che deve fare. Sacrifica ad esempio la vita altrui col dubbio di non star facendo quel che egli deve fare. Ma che nome daremo a questa forma di azione se non quello di «Malafede», sia pure di un tipo particolare ed implicito? 
E allora non dovremo dire che all'essenza della «Buona Fede» appartiene la «Malafede»? Qui si poteva solo intravvedere perché ci si è azzardati a dire che la Morale è un «sepolcro imbiancato»: perché la «Buona Fede» è il bianco che ricopre il sepolcro della «Malafede». Chi parlava dei «sepolcri imbiancati» guardava verso una Morale sublime. Ma il pensiero non ci spinge ad affermare che proprio le morali sublimi sono «sepolcri imbiancati»?