domenica 27 aprile 2014

LA CHIESA E IL MONDO


Nel nobile modo in cui il 10 febbraio 2013 Benedetto XVI ha espresso la sua rinuncia è indicato esplicitamente il problema centrale del Cristianesimo: si trova «Nel mondo del nostro tempo, soggetto a rapide mutazioni e turbato da questioni di gran peso per la vita della Fede» («In mundo nostri temporis rapidis mutationibus subiecto et quaestionibus magni ponderis pro vita fidei perturbato»). Nel testo, la parola pondus (peso) compare tre volte:         

  • come peso» delle questioni riguardanti la vita della Fede  
  • come peso» del gesto di rinuncia    
  • come peso» del ministerium che viene lasciato per il venir meno delle forze.

Ma solo il primo peso vien detto grande: la vita della «Fede» è oggi gravata da «Questioni di gran peso» ed è essa stessa turbata dal turbamento del mondo. Il mondo cristiano, tanto meno un Pontefice, possono riconoscere che il turbamento della «Fede» è ben più profondo di quello visibile, dovuto alla corruzione all'interno della Chiesa. Ciò che più salta agli occhi è l'«Allontanamento della modernità» e soprattutto del nostro tempo dai valori della «Tradizione» e dunque dalla «Vita della Fede» (in questo contesto, la corruzione della Chiesa è più grave di tutte le forme passate del suo degrado).
Il turbamento del mondo, tuttavia, riguarda non solo la «Fede religiosa», ma anche quelle altre forme di «Fede» ancora dominanti (e che non amano sentirsi dire che sono a loro volta «Fedi»). Il riferimento è soprattutto al Capitalismo, alla Democrazia, al Capitalismo-Comunismo Cinese o, in Iran, alla mescolanza di Teocrazia e Capitalismo; e il Comunismo sovietico, come il Nazismo, erano tra le più rilevanti di queste forze. Ognuna delle quali avverte la necessità di eliminare le proprie degenerazioni, ma si rifiuta di ammettere l'inevitabilità del proprio «Tramonto».
Non è una metafora né un'iperbole fuori luogo affermare che ognuna di esse si sente un «Dio» che deve distruggere gli infedeli. Ma, come la «Fede religiosa», anche la vita di queste altre forze è gravata da «Questioni di gran peso» da questioni che fanno intravvedere l'inevitabilità di tale «Tramonto». Certo, un Pontefice deve credere che il Cristianesimo durerà fino alla fine del mondo. Ma la gran questione è se quelle forze , dunque anche il Cristianesimo , Si rendano conto del loro vero avversario, che le scuote e le travolge.
Il «Relativismo» (Vedi pubbl. Marzo 2014) è stato l'avversario di Benedetto XVI. Lo sforzo di combatterlo ha avuto un carattere soprattutto pastorale. Il semplicismo concettuale e l'ingenuità del «Relativismo» ne favoriscono infatti la diffusione presso le masse, e tale diffusione è tutt'altro che irrilevante per la vita della «Fede». Giovanni Paolo II si avvicinava maggiormente all'avversario autentico quando individuava negli inizi della «Filosofia Moderna» (Cartesio) la matrice di tutti i grandi «Mali» del secolo XX, quali le dittature del Comunismo e del Nazionalsocialismo, o l'egoismo dell'Economia capitalistica. In questa prospettiva, lo stesso «Relativismo» può essere inteso come un parto di quella matrice.

L'uomo può incominciare a vivere solo se vuole trasformare se stesso e il mondo da cui è circondato. Se non fa questo non può nemmeno compiere quella trasformazione di sé che è il respirare in senso letterale. E muore. Vive solo se si fa largo nella «Barriera» che gli impedisce di trasformare sé e il mondo. La «Barriera» è l'Ordine immutabile della natura. Solo se la penetra, la sfonda, la squarta, e comunque la fa arretrare, può liberarsi un poco alla volta dal suo peso e ottenere ciò che egli vuole. 

mercoledì 16 aprile 2014

IL «PARADOSSO» DEL CRISTIANESIMO



Socrate è ammirato da Kierkegaard in quanto avversario della pura speculazione «Metafisica» e primo pensatore che abbia centrato la propria "indagine" sulla categoria del singolo giungendo quasi ad intuire la «Via della Salvezza Religiosa». Ma è la figura di Cristo ad imporsi sopra ogni altra alla mente del filosofo danese poiché incarna l’aspetto «Scandaloso» e «Paradossale» della «Fede», vale a dire la credenza nella «Divinità» che si fa «Uomo», nell’«Eternità» che si fa «Tempo». Solo il «Salto nella Fede», inevitabilmente rischioso, fonda pienamente il valore della soggettività rendendo il singolo «Discepolo» contemporaneo a Cristo
Per Kierkegaard, le tesi socratiche riguardanti la «Verità e la Maieutica» sono da rovesciare. la «Verità» non può venir ricavata dall’Uomo grazie al processo «Maieutico». «La Verità non è nell’uomo, ma fuori di lui; la Verità è Cristo, Salvatore e Redentore». Per diventare «Discepoli» di tale Maestro bisogna attivare la decisione personale, il «Salto nella Fede» fino a giungere al massimo dei paradossi: al fatto storico unico che è costituito dalla presenza di Dio nel Tempo. E’ questo il momento assoluto in cui «Tempo ed Eternità» si incontrano. 
Il Cristianesimo irrompe sulla scena spalancando una nuova dimensione rispetto a quella in cui aveva piena legittimità l’insegnamento socratico, ma per approdarvi bisogna superare enormi difficoltà. Cristo, infatti, è una figura «Scandalosa», rappresenta il «Paradosso Assoluto». Essendo Dio, egli si presenta nelle apparenze di che ne nega la gloria, nelle sembianze di un uomo debole e sofferente, soggetto alla morte. 
Dio è apparso realmente in terra nella povera figura di un servo condannato a morire «Ignominiosamente». Chi è «Discepolo» di Cristo, rendendosi, grazie a un cambiamento interiore, capace di non arrestarsi di fronte alle apparenze, si mette nella condizione di ricevere da «Lui» la «Verità», ma pone anche le condizioni atte a consentire che Dio si manifesti. Il cambiamento radicale attuato dal «Salto nella Fede» implica una decisione nel Momento: incontro di «Tempo ed Eternità». Attraverso il «Salto» l’Uomo trova la «Salvezza» in quell’evento unico che è Cristo. Il Momento, in cui l’«Eternità» irrompe nel «Tempo», è il «Paradosso» del Cristianesimo (la venuta di Dio nel Mondo). 
Grazie a tale «Paradosso» si può andare «Oltre» la definizione di Dio come differenza «Assoluta» (l’Uomo Non è Dio e di conseguenza è nella Non-Verità e nel Peccato). Producendosi quell’evento unico che è la venuta di Dio nel Mondo, il Cristianesimo si caratterizza come fatto storico. Non bastano per prestare «Fede» a tale incomprensibile fatto storico i richiami alle testimonianze dirette di coloro che vissero al tempo di Gesù o a ciò che si è sedimentato, attraverso i secoli, nel patrimonio storico, nella tradizione, nel sapere accumulato dalle istituzioni religiose. 
La Storicità di questo fatto si ripresenta ogni volta che il singolo si apre alla «Fede» e decide per «Essa», essendo peraltro, (ed è questo un «Paradosso» ulteriore) la «Fede» stessa un «Dono di Dio». Non esistono «Discepoli di seconda mano» di Cristo. O si è «Discepoli di prima mano» o non si è «Discepoli affatto». Anche colui che vive secoli e secoli dopo Cristo, se è di «Lui» veramente un «Discepolo», è «suo contemporaneo». La venuta di Dio nel Mondo torna ad essere l’evento originario che è stato con Gesù ogni qualvolta vi sia un autentico «Discepolo» di Cristo anche se questi vive millenni dopo i fatti storici cui si riferiscono i «Vangeli». La divinità di Cristo non era più evidente per coloro che avevano la possibilità di vederlo con i propri occhi. Se essi erano veramente suoi «Discepoli» ciò era dovuto alla loro «Fede». 
Solo il vero «Discepolo» di Cristo ha il diritto di volgere le spalle a Socrate per guardare ad un altro Maestro, a un Maestro che «Trascende» la misura umana, che implica la presenza di Dio nel «Tempo», che è questo stesso Dio nel «Tempo». Per il socratismo l’Uomo vive nella «Verità», anzi la reca in sé, anche se non ne è consapevole, e si tratta solo di renderla esplicita, di trarla fuori. Il Maestro è il mezzo per attivare il progetto «Maieutico», l’occasione che consente alla «Verità», che abita già, fin dal principio, nel «Discepolo», di rendersi manifesta. Con piena legittimità, conseguentemente a tale caratteristiche del processo «Maieutico», Socrate non voleva essere chiamato Maestro, sostenendo  di non essere in grado di insegnar nulla. 
Per il Cristianesimo, secondo Kierkegaard, l’Uomo deve venir ricreato, fatto rinascere affinché possa aprirsi alla «Verità» che viene «a lui da fuori». Il Maestro deve provocare la seconda nascita del «Discepolo», dar vita a un «Uomo nuovo» che si mostri in grado di far sua la «Rivelazione», di accogliere la «Verità» di Dio. Tale Maestro deve essere quindi un «Salvatore e un Redentore». 
Socrate in qualche modo può venir considerato un precursore di Cristo, avendo egli intravisto il «Mistero» ed essendosi fermato sulla sua soglia. Egli però non ha conosciuto una «Verità» oltre l’Uomo, una «Salvezza» che è «Grazia». Ai «Discepoli» di Cristo egli non è in grado di dare nulla; resta però ancora un Maestro per coloro che, «credendo d’essere cristiani», sono invece immersi in una «Realtà» che del Cristianesimo è la «Negazione». 

Cristiani, semplicemente, non si è, ma si diventa. E il diventarlo è una strada stretta che implica l'azzardo supremo per cui il singolo affronta se stesso come vivente problema dalla cui soluzione dipende la sua «perdizione» o la sua «salvezza». 





sabato 12 aprile 2014

IL DIO CRISTIANO «VIA, VERITA' E VITA»



Dio, secondo il «Cristianesimo», non è conoscibile dall'uomo, se egli stesso non si «rivela a lui». Secondo il cattolicesimo, l'uomo può arrivare a provare l'«Esistenza» di Dio attraverso percorsi filosofici e logici, ma non può comunque arrivare alla sua conoscenza con la pura «Ragione»: usando cioè le parole di Tommaso d'Aquino (a cui si ispira la Dottrina Ufficiale della Chiesa), la «Ragione» può arrivare a conoscere il «quia est» di Dio (il fatto che Egli è) ma non il «quid est» (che cosa è); per sapere «chi è Dio» occorre il dato della «Rivelazione». Dio si è rivelato agli uomini «nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti» e in generale nella storia di Israele, testimoniata dalla Sacra Scrittura

La piena e definitiva «Rivelazione» di Dio si è avuta con «Gesù Cristo», poiché egli è al tempo stesso «Figlio di Dio» (e dunque Dio egli stesso) e uomo per effetto dell'incarnazione. Tale «Rivelazione» è stata tramandata nel «Vangelo» e in generale nel «Nuovo Testamento», ed approfondita nella riflessione successiva. 

Dio secondo il «Cristianesimo» è dunque il primo dogma: «Uno» e «Trino», una Sostanza in tre Persone, «Padre, Figlio e Spirito Santo». Il Padre e il Figlio, l'«Essere» e il «Pensiero» (il Logos) sono in una reciproca dimensione relazionale di «Amore», espressa (e personificata) dallo «Spirito Santo». Dio è «Personale, Eterno, Onnipotente, Onnisciente, Perfettissimo, Creatore dell'Universo, Provvidenza e Salvezza degli uomini», creature poste al vertice dell'ordine del creato. 

Il secondo dogma del Cristianesimo è la «Fede» in Gesù Cristo, Figlio di Dio, Verbo eterno del Padre, che si incarnò in forma umana, nascendo dalla Vergine Maria. Dopo aver predicato l'«Amore» infinito di Dio verso gli uomini, portò a compimento la sua missione con la sua «Passione» e «Morte in Croce». Il Padre lo «Resuscitò» il terzo giorno (Pasqua di Risurrezione), aprendo agli uomini la possibilità della «Redenzione». Mandò poi lo «Spirito Santo» sui suoi discepoli, che formarono la «Chiesa»

«Preso il boccone, Giuda subito uscì. Ed era notte...» (Giovanni 13,21-30). Su Gerusalemme, dunque, si stende il velo delle tenebre e Giuda, il traditore, dopo aver partecipato a quell’ultima cena durante la quale Gesù gli aveva espresso un estremo gesto di attenzione offrendogli il “boccone dell’ospite”, segno di cordialità, s’avvia di corsa per le strade deserte della «città santa» a consumare il suo tradimento. In quella «grande sala, arredata e già apparecchiata, al piano superiore» di una casa "gerosolimitana" (Marco 14,15), era salito Gesù con i suoi discepoli. Là aveva celebrato la cena pasquale e poi, uscito Giuda, aveva iniziato a parlare. 

Quella sarebbe stata l’ultima sera della sua vita terrena. Le sue parole, perciò, acquistavano il sapore di un testamento. Giovanni, l’evangelista, ha rielaborato quei discorsi secondo uno stile che è stato chiamato “a ondate” perché, come accade ai flutti della risacca sul litorale che ricoprono lo stesso spazio in forme sempre diverse, così i temi dominanti, la «Fede» e l’«Amore», ritornano ripetutamente su sé stessi, ma costantemente con tonalità e sfumature differenti. Facciamo solo due citazioni. 

L’una è per la «Fede», che è comunione con Cristo: «Io sono la vera vite, voi i tralci. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da sé stesso, se non rimane nella vite, così anche voi, se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci» (Giovanni 15,1.4-5). 

L’altra citazione è sull’«Amore»: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così anche voi amatevi gli uni gli altri... Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (13,34; 15,12). Ora, però, la nostra analisi si concentra sulla frase di Gesù: «Io sono la via, la verità, la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Giovanni 14,6)

Gesù ha fatto balenare ai suoi amici ciò che lo attende, la morte e il successivo ingresso nell’orizzonte divino, promettendo che là avrebbe preparato un posto anche per loro. Tommaso, il “dubbioso”, gli obietta: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la Via?». E la risposta di Cristo è in quella «Potente» affermazione che abbiamo citato. Essa si apre con quell’«Io sono» che vale molto di più di una semplice copula verbale perché, come spesso avviene nel quarto Vangelo (si legga, ad esempio, Giovanni 8,58), si rimanda alla solenne autopresentazione di Dio nel roveto ardente al Sinai: «Io sono colui che sono» (Esodo 3,14). 

A quella premessa gloriosa si collegano «tre titoli» che s’inanellano tra loro. Infatti, Cristo è «la Via» per raggiungere il Padre proprio perché è «la Verità», ossia la «Rivelazione perfetta del mistero di Dio». Attraverso lui, perciò, «conoscerete la Verità che vi farà liberi » (8,32). I nostri passi avanzeranno verso quell’orizzonte di «Luce», guidati dalla parola di Gesù che è «Verità». 

La «Verità» è un vocabolo usato non nel «senso» della filosofia classica ove indicava lo svelamento dell’«essere», della sostanza della realtà, bensì è adottato per designare la «Rivelazione» che Cristo è venuto a portare nel mondo. La «Verità» è la Parola di Dio che Gesù ci rivela e che deve diventare la «Via» della nostra fede e la lampada della nostra carità. La vera lode a Dio sale, quindi, dalla nuova creatura redenta e liberata dal male.

Ma egli è anche «la Vita» che non perisce, l’essenza stessa di Dio, ed è per questo che, stando uniti a lui in pienezza, appunto come i tralci al tronco della vite, noi saremo ammessi all’intimità vitale con Dio, il Padre, Signore della vita. Mettiamoci, allora, sulla strada che egli ci rivela e, stretti a lui, raggiungeremo la «Luce eterna e divina»: «Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (8,12)

la «Luce» è un simbolo di Dio perché riesce a esprimere nettamente due qualità specifiche del divino che i teologi chiamano la «Trascendenza e l’Immanenza». Da un lato, infatti, la «Luce» è esterna a noi, non la possiamo prendere tra le mani e strappare o dominare, ci «Trascende», ossia ci supera, è altra e diversa rispetto a noi, rappresentando quindi il mistero e la distanza che intercorre tra noi e Dio. D’altro lato, però, essa ci avvolge, ci rivela, ci riscalda, ci fa «vivere» ed è perciò «Immanente», cioè rimane con noi e dentro di noi, raffigurando in tal modo la vicinanza della divinità alle sue creature.


Gesù invita a non guardare più a quelle alte fiamme luminose che brillano nella notte “gerosolimitana”, ma a cercare un’altra «Luce» che permette di non vivere più sotto l’incubo delle tenebre spirituali. Come è noto, infatti, l’oscurità è il regno del delitto, del vizio, del male: «Quando non c’è luce, si leva l’omicida per assassinare poveri e inermi. Di notte s’aggira il ladro col volto incappucciato e l’occhio dell’adultero spia l’arrivo del tramonto pensando: Nessun altro occhio mi vedrà! Nelle tenebre si forzano le case» (Giobbe 24,14-16).
Per questo, Cristo si definisce anche come «La Luce della Vita». La sua è una presenza che indica il «percorso morale» che conduce alla vera «Vita», che non è soltanto quella fisica, come non è soltanto corporea la vista che poco tempo dopo egli offrirà al cieco nato. Infatti, il racconto del successivo capitolo 9 del Vangelo di Giovanni non approderà soltanto alla gioia di chi riesce finalmente a vedere la luce e i colori della natura, ma anche alla meta di chi potrà proclamare la sua professione di «Fede» in Gesù Cristo, «Luce» della sua «Vita»: «Credo, Signore! E gli si prostrò innanzi» (9,38).
E allora anche tutti noi, «se camminiamo nella luce, come Dio è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri» nell’amore (1Giovanni 1,7).











mercoledì 9 aprile 2014

SAN TOMMASO: «LE CINQUE VIE E L'ESISTENZA DI DIO»


Le cinque vie sono gli argomenti «cosmologici» con cui San Tommaso d'Aquino (Vedi Pubbl. Marzo 2013) prova l'esistenza di Dio. Tommaso parte dall' insufficienza dell' «argomento ontologico» di Sant'Anselmo d'Aosta. Secondo Tommaso l'esistenza di Dio non può essere provata a «priori»: per accettare l' «argomento ontologico» dovremmo conoscere l'essenza di Dio, il che, in questa vita, non si dà. Rimangono valide le prove a «posteriori», che Tommaso sintetizza in «cinque vie» che portano all'esistenza di Dio. I richiami teoretici sono: per le prime due vie ad Aristotele (con correzioni anche notevoli), per la terza ad Avicenna, per le ultime due ad Agostino ed al platonismo, per la quinta anche a Socrate
Proponendo queste vie, Tommaso intende mostrare la stringente ragionevolezza di pensare ad un fondamento «Metafisico del Mondo», il cui stesso «Essere» non dipende da sé, non trova in sé la propria giustificazione , ma esplicita anche chiaramente che non si tratta affatto di tentare di dimostrare il «Cristianesimo»: la «Redenzione», in quanto fatto storico, non può essere «razionalmente» dimostrata, ma va conosciuta mediante un opportuno ed attento studio delle fonti, in sostanza della «Bibbia»; lì si potranno riscontare i motivi di ragionevolezza del «Credere», anche se la decisione ultima sarà sempre lasciata alla «Libera Volontà» di accettare o meno la «Rivelazione», ed anche se il «Credere» risulterà, alla fine, essenzialmente un «Dono della Grazia». Come osservazione comune a tutte le vie, si noti che Tommaso muove sempre le sue considerazioni da qualcosa che sia empiricamente osservabile: un «Ente» che muta, un «Ente» che si genera, ecc. 
La prima via ( Moto o Cambiamento) parte dall'osservazione del «movimento»: se osservo un qualsiasi mutamento, devo necessariamente presupporre un «motore», cioè un agente che abbia originato il mutamento; tale «motore», per muovere, deve essere in «atto», poiché ciò che è in «potenza» non agisce di fatto, ma soltanto può farlo; ora ci sono due possibilità: o quel «motore» è sempre in «atto», ed è Dio, o ha avuto bisogno di un ulteriore «motore» che lo portasse dalla «potenza» all'«atto» affinché potesse muovere; in questo secondo caso, il «motore» responsabile del primo movimento (indipendentemente da quanti siano i motori intermedi) dovrà per forza essere sempre in «atto», altrimenti non lo sarebbe nessuno degli altri motori, ed io non osserverei nessun mutamento. Ed anche se i motori in «potenza» fossero infiniti, resta il fatto che non potrebbero, essendo tutti in «potenza» appunto, produrre una sola cosa in «atto». Ma siamo partiti proprio dal fatto che un qualche movimento in «atto» si dà ed è osservabile. Il primo «motore» che, essendo immobile e sempre in «atto», pone in attività i motori successivi è «ciò che chiamiamo Dio»
La seconda via parte dalla «causalità efficiente»: si procede in modo analogo al precedente, applicando il procedimento al fatto che osservo l'esistenza di realtà che non si spiegano da sé, ma sono effetto di qualcos'altro; anche in questo caso deve esistere una «causa efficiente» «prima», «che chiamiamo Dio», altrimenti ogni effetto sarebbe solo una possibilità, niente di reale (attuale). Si noti, qui, che Tommaso usa sì termini e concetti aristotelici, ma procede molto oltre Aristotele stesso, in quanto lo «Stagirita» (Aristotele Nativo di Stagira) non ammetteva che Dio fosse «causa efficiente» del mondo, ma sosteneva che ne fosse solo «causa finale».

La terza via (Contingenza e Necessità) parte dalla riflessione sulla «Contingenza»: l'esperienza ci attesta che esistono cose che possono essere come «Non Essere», cioè sono «Contingenti», ossia sono tali che la loro essenza non comprende l'esistenza; ma cose siffatte talvolta sono talvolta no; posta la domanda se ogni cosa sia «Contingente» o se esista qualcosa di «Necessario», dobbiamo escludere la prima ipotesi: infatti, se tutto fosse «Contingente», sarebbe inevitabilmente capitato, in passato, un momento in cui tutto non era; il che è falso perché altrimenti ora non ci sarebbe «Niente»; dunque, deve esistere qualcosa di «Necessario», ossia qualcosa la cui essenza comprenda l'esistenza: tale «Cosa» «Tutti chiamano Dio». Tommaso, in questa formidabile argomentazione, che ci aiuta a vedere la trasparenza di tutte le «Cose» che ci circondano, per coglierne, oltre esse, «Colui» che dà loro fondamento ed essere, lascia implicito un punto che potrebbe essere così chiarito: o il «tempo» prima di noi ha avuto un «inizio», e allora diamo già per scontato ciò che stiamo discutendo, cioè che ci fu un'epoca quando «Nulla era», prima dell' «inizio» del tempo o il tempo che ci precede è infinito, e noi siamo come un punto su una semiretta. Ora, ciò che può succedere, come già Aristotele aveva capito, prima o poi succede; quindi, se in un tempo infinito, una determinata situazione non si produce, è segno che essa è impossibile. In effetti, se tutte le cose sono «Contingenti», in un tempo infinito è inevitabile che si realizzi il caso in cui tutte si trovano contemporaneamente a «Non Essere» (è come se avessimo degli elementi che possono presentarsi solo come «zero o uno»: dati infiniti tentativi, è inevitabile che si dia il caso in cui tutti segnano «zero»). Se ciò fosse successo, siccome dal «Niente» non viene «Niente», il mondo non sarebbe più ripartito da solo. Dunque, non è ammissibile che non esista almeno un «Ente» «Necessario». Il discorso, naturalmente, non vuole dimostrare che il mondo sia «Eterno». Anzi, i cristiani sanno che la «Creazione» implica un' «inizio temporale dell'universo». L'intento di Tommaso, qui, è solo di mostrare la ragionevolezza dell'esistenza di «Dio». 
La quarta via (I Gradi dell’ Essere) riflette sui gradi di «Perfezione»: se possiamo osservare, nel mondo, cose con una «Perfezione» (qualità, potremmo dire) posseduta in grado più o meno elevato (cose più o meno buone, ad esempio), dobbiamo ammettere l'esistenza di quella «Perfezione» ad un livello massimo (la bontà assoluta, nel nostro esempio); tale livello assoluto di «Perfezione», richiesto dal relativo che noi vediamo, è «normalmente chiamato Dio». 
La quinta via ( Finalità o Ordine del Mondo) parte dalla considerazione che oggetti naturali non dotati di volontà agiscono in modo «Ordinato e Finalizzato»: infatti, sempre, o per lo più, operano in un determinato modo (cosa su cui, come è facile notare, si rende possibile la costruzione della scienza); il che richiede che un essere intelligente abbia dato razionalità al cosmo: quest'essere è quello che «chiamiamo Dio»
Cinque argomenti o un argomento? Secondo alcuni pensatori le «cinque vie» possono essere ridotte a una sola: la «Contingenza» di tutte le «Cose» del mondo, rimanda ad un «Essere Necessario» senza del quale qualsiasi esistenza apparirebbe come sorta dal «Nulla». Tuttavia, osserva Gilson, la molteplicità delle vie della dimostrazione cosmologica è essenziale: «Dio» infatti non può apparire come la conclusione inevitabile di una sola linea di pensiero sul mondo, bensì come la conclusione di tutte quelle linee lungo le quali la conoscenza umana del mondo può raggiungere profondità secondo quella forma di ragione che, con altri, Benedetto XVI chiamerebbe «logos».












SANT'ANSELMO: «DIO ESISTE ANCHE PER CHI LO NEGA»


Trovarsi in un Paradiso religioso, tecnologico o d' altro tipo , e vivere con il terrore di perderlo, vuol dire trovarsi in un Inferno. Quel timore e' vinto solo se il Paradiso e' innanzitutto vivere nella «Verità» , e nella «Verità» appaia che il luogo dove ci si trova e' un vero Paradiso e la «Felicità» provata e' vera «Felicità» . 
Sin dagli inizi  il Cristianesimo pensa, potentemente, il legame che unisce la «Felicità» alla «Verità» . Ed e' dalla Filosofia Greca che il Cristianesimo attinge il significato stesso della parola «Verità »: «Verità» e' ciò che non può essere in alcun modo smentito. Il Paradiso cristiano e' innanzitutto la vita felice nella «Verità» così intesa. La «Verità» , con cui l' uomo e' già in rapporto nella vita presente, si dispiega in modo compiuto nella vita futura. Questo modo di pensare si manifesta, con grande splendore, nel «Proslogion» di Anselmo di Aosta, Santo per la Chiesa e massimo filosofo per i filosofi, che da Cartesio a Leibniz, da Kant a Hegel hanno meditato a lungo sul suo «Argumentum», il cosiddetto «Argomento Ontologico». 
Nove secoli fa egli l' aveva intensamente ricercato : «Un unico argomento , scrive nel “Proemio” , che per mostrarsi probante non avesse bisogno di nient' altro che di se stesso e che da solo fosse capace di sostenere che Dio esiste veramente». Un pensiero capace di mostrare da solo che l' affermazione dell'esistenza di Dio e' «Verità»! Da solo, cioè senza farsi aiutare nemmeno dalla «Fede cristiana». 
Da vero filosofo, Anselmo dice addirittura che anche se egli non volesse più credere nell'esistenza di Dio, trasgredendo così quanto gli impone la «Fede cristiana», questo «Argomento» dimostrerebbe egualmente l' impossibilità di negare tale esistenza. L' «Argomento» non ha lo scopo di far nascere la «Fede»: Anselmo crede, ha «Fede». Ma la «Fede» non gli basta; anche se e' la «Fede» stessa ad esigere un sapere superiore, capace di «Leggere dentro» (intelligere) le pieghe delle cose , a differenza della «Fede», che non legge dentro le cose ultime, ma le mostra «Attraverso uno specchio, in enigma», come dice l' Apostolo. L' «Argomento» ha bisogno solo di sé , non della «Fede». Ma la «Fede» e' il terreno in cui ci si deve inizialmente trovare, proprio per potersi sollevare al di sopra di esso. «Non cerco infatti di intendere allo scopo di Credere; ma Credo allo scopo di intendere». 
Dio e' presente a chi crede, ma Anselmo gli dice: «Io cerco il tuo volto», che rimane «Luce inaccessibile». Con la pura audacia del filosofo, prega il Dio in cui crede di fargli vedere la sua «Luce» «Anche da lontano o dal profondo». E l' «Argomento» unico e potentissimo, vera turris eburnea e janua coeli, gli si fa incontro con «Certa verità e vera certezza». Sì , non appena scoperto incomincia la delusione. «Hai forse trovato, «Anima» mia, quel che cercavi?». Con l' «Argomento» vero e certo la sua «Anima» sa che Dio esiste; eppure: «Come mai non senti ciò che hai trovato?». 
Solo nella vita futura del Paradiso la fame può essere saziata. Ma il gaudio in cui entreranno i beati non sarà più la semplice «Fede», ma la «Piena conoscenza» di Dio, che si manifesterà ai loro occhi in tutta la sua ricchezza ora inaccessibile, ma con la «Verità» con cui, qui sulla terra, l' «Unico argomento» ha mostrato l' esistenza di Dio. E i beati avranno la «Vera sicurezza» (vera securitas) che la loro «Felicità» non verrà mai meno (numquam et nullatenus). «Godranno tanto quanto ameranno, e ameranno tanto quanto conosceranno». Ma cosa dice, dunque, l' «Argomento»? 
Nel "Proslogion" Dio viene dimostrato a «Priori», ossia con un ragionamento che prescinde dal riferimento all’esperienza. Nel "Proslogion" si prende inizio, infatti, dalla nozione di Dio che possiede anche chi lo «Nega». Secondo Anselmo, l’insipiens (il non sapiente, lo stolto) dice «non c’è Dio». Ma l’insipiens, per poter negare l’esistenza di Dio, deve avere una qualche idea di Dio nel suo intelletto, cioè deve dare un significato alla parola Dio. Chi «Nega» Dio intende con tale parola almeno questo: che egli e' «Ciò di cui niente può essere pensato più grande» (id quo maius cogitari nequit). Negandolo ne ammette l’ esistenza nella sua «Mente». Ma «Ciò di cui niente può essere pensato più grande» «Deve Esistere Realmente». Infatti, se non esistesse Realmente, non sarebbe «Ciò di cui niente può essere pensato più grande», appunto perché almeno mancherebbe di tale esistenza. Ma se Dio esistesse solo nella nostra «Mente», e non in «Realtà» , lo si potrebbe pensare Reale; ma in questo modo avremmo pensato qualcosa di «Maggiore» di «Ciò di cui niente può essere pensato più grande». 
Ammettiamo dunque che «Ciò di cui niente può essere pensato più grande» esista nel solo «Intelletto», e non nella «Realtà»; ma se è dunque nel solo «Intelletto», si può almeno pensare che esista anche nella «Realtà», il che sarebbe «Maggiore» di quello che non poteva essere «Minore» di nient'altro: vi aggiungeremmo infatti la fondamentale caratteristica della «Reale esistenza». Ne seguirebbe un «paradosso»: qualcosa sarebbe «Maggiore del più Grande». A questo punto, chi «Nega» ancora che a un tale concetto dell'«Intelletto» corrisponda una «Realtà», necessariamente si contraddice, perché solo attribuendogli l'esistenza riusciremmo a pensarlo davvero come «il più grande». Ciò che esiste nella «Realtà», secondo Anselmo, ha più valore di ciò che esiste nel solo «Intelletto», secondo la concezione tipicamente «Platonica» che identificava il «Bene» con l'«Essere». 
L'albero esiste nella «Realtà» e quindi anche nell'«Intelletto», mentre non tutto quel che esiste nella «Mente» esiste anche nella «Realtà» (ad esempio un cavallo alato). Ma non si può concepire Dio come il massimo delle qualità senza attribuirgli una «Reale Esistenza», poiché anche l'«Esistenza» è una qualità. 
Dio dunque «necessariamente» esiste non solo come qualcosa di pensato, (nella nostra Mente), ma... anche come qualcosa di «Reale»














venerdì 4 aprile 2014

SANT'AGOSTINO: «LA VERITA' E' LA LUCE DI DIO, LA VERITA' E' «DIO»


Fondendo originalmente il Verbo Cristiano con il Logo Greco, Agostino intese la Filosofia come ricerca interiore, come «via» per conoscere se stessi e, attraverso se stessi, Dio: «l’Uno, l’Essenziale, l’Immutabile». «Non volere uscire fuori di te, ritorna in te stesso, la “Verità” abita nell’interno dell’uomo, e se troverai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso. Ma ricordati che quando trascendi te stesso, tu trascendi l’anima tua razionale. Tendi dunque là dove s’accende la «Luce» della ragione» (De vera religione XXXIX,72)

Il Pensiero di Agostino consistette nel tentativo grandioso di tenere uniti la «Ragione e il Sentimento», lo «Spirito e la Carne», il «Pensiero pagano e la Fede cristiana». Agostino introdusse alcuni concetti nuovi marcatamente religiosi e attinenti in particolare alla «Fede cristiana»: sostituì ad esempio la teoria della reminiscenza delle «Idee» con quella dell' «Illuminazione Divina»; concepì la «Creazione dell'Universo» non semplicemente come un processo «Necessario» tramite il quale Dio si manifesta e produce se stesso, ma come un «Libero Atto d'Amore», tale cioè che si sarebbe anche potuto non realizzare. E soprattutto, il Dio di Agostino non è quello impersonale di Plotino, ma è un Dio «Vivente» che si è fatto «Uomo». 

Secondo Agostino anche il «Mondo» e gli «Enti corporei», essendo frutti dell'«Amore Divino», hanno un loro valore e significato. Alcune delle questioni fondamentali a cui Agostino cercava una risposta erano in particolare le seguenti: Se c'è Dio, che è buono e vuole il «Bene» per le sue creature, perché allora permette che ci sia il «Male» e il «Dolore»? E perché l'uomo, che pure è fatto a «Sua» immagine e somiglianza, compie deliberatamente il «Male»? Prima della propria conversione al Cristianesimo, Agostino aderì alla dottrina manichea: questa presumeva di spiegare il «Male» facendone uno dei due Princìpi che, insieme al «Bene», hanno creato il Mondo. 

Dopo aver preso in considerazione la vita di Gesù Cristo, però, egli ritenne insoddisfacente una tale spiegazione. Cristo infatti aveva sconfitto il «Male», pur attraverso una lunga tribolazione nella quale si era sottoposto volontariamente ad esso. Ciò comportava una serie di altre domande: Ma allora Dio, che può tutto ed è perfetto, perché ha dovuto subire il «Male» per riuscire a vincerlo? E se questo accade, Egli è ancora un Dio Onnipotente? I vari tentativi di risposta condussero Agostino a ipotizzare che esistono almeno tre tipi di «Male». 

IL «Male Metafisico»: nell’universo esistono gradi inferiori di «Essere» rispetto a Dio, dipendenti dalla limitatezza delle cose create, dai difetti insiti nella materia: proprio da questo deriva il «Male». Ma ciò che ad una superficiale considerazione appare come un difetto, visto nell'ottica dell’Universo scompare: ogni «Cosa», anche la più insignificante o nociva, ha un suo «Senso» ed una sua «Ragione d’Essere» nella totalità della Creazione. 

IL «Male Morale»: è il «Peccato», che nasce dalla «Cattiva Volontà». La nostra «Volontà» dovrebbe tendere al «Bene Sommo», ma poiché esistono molti «Beni», l’uomo può tendere a questi, preferendo la «Creatura al Creatore», i «Beni Inferiori a quelli Superiori», la «Materia allo Spirito». Il «Peccato» deriva allora dallo sbagliare nella scelta del «Bene» a cui puntare. 

IL «Male Fisico»: La sofferenza non è causata da un Dio maligno che tormenta gli uomini ma deriva dalla debolezza fisica: malattia, sofferenza, morte, tormenti dell’animo...sono conseguenze del «Peccato Originale», conseguenze del «Male Morale». Sant’Agostino dice che, con il «Peccato Originale», non la carne ha reso l’anima peccatrice, ma è l’anima peccatrice che ha reso il corpo corruttibile. Nella lettera ai Corinzi, Paolo scrive che il «pungiglione» della morte è il «Peccato» (15,56). 

Ma il vero «Male», per Sant'Agostino, è quello «Morale», ovvero il «Peccato» che deriva dal «Libero Arbitrio» dell’uomo (vedi Pubbl. Marzo 2013) indebolito dalla corruzione operata dal cosiddetto «Peccato Originale». Al concetto del «Libero Arbitrio», il Santo collega i problemi della «Libertà, della Grazia e dell'Amore». Ecco allora che il problema del «Male» si connette con quello della «Libertà umana». 

Se l'uomo non fosse libero, egli non avrebbe meriti, né colpe. Il dilemma che si pone con questa affermazione è se esista il «Libero Arbitrio» oppure la «Predestinazione», problema che si è venuto a creare in seguito al «Peccato Originale»: Dio, che è «Onnisciente» e conosce il futuro, ha dato piena «Libertà» all'uomo, ma sa che, lasciandolo libero, questi peccherà. Dio potrebbe anche intervenire per impedirglielo, ma non lo fa per non interferire col suo «Libero Arbitrio»; l'uomo, così peccando, ha commesso il «Peccato Originale», con cui ha compromesso la propria «Libertà», volgendola contro se stessa. Sebbene egli sia divenuto indegno di ricevere la «Salvezza», Dio, conoscendo le sue possibili scelte verso il «Male» o verso il «Bene», dona ad alcuni, con la «Grazia», la possibilità di «Salvarsi», mentre ad altri lascia la «Libertà» di «Dannarsi»; tuttavia, questa non è una scelta divina arbitraria, ma è semplicemente la «Prescienza» di Dio che, nell'«Eternità» (cioè oltre il tempo), vede coloro che possono ricevere la «Grazia» e coloro che non possono. Questi ultimi anche se la ricevessero non solo non si salverebbero, ma si «Dannerebbero» ancor più. 

Per Agostino dunque la «Volontà» di Dio precorre semplicemente la «Volontà» dell'uomo, non la costringe, poiché tale nostra «Volontà» è l'unica davvero che ci renda meritevoli della «Salvezza» o della «Dannazione»; infatti, anche se nessun uomo potrebbe salvarsi con la sola propria «Volontà», coloro che potrebbero salvarsi vengono soccorsi dalla «Grazia Divina», che li aiuta nella loro predisposizione. Tale concetto si spiega nella risposta evangelica di Cristo ai suoi discepoli, che gli avevano chiesto: «Chi si potrà dunque salvare?». E Gesù, fissando su di loro lo sguardo, disse: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile. » (Matteo 19,25-26). Sarebbe d'altronde impossibile indagare le ragioni per cui Dio interviene a favore di alcuni e non di altri, perché noi non abbiamo titoli per criticare Dio. Agostino si rifà in proposito alle parole di Paolo di Tarso: «O uomo, chi sei tu per disputare con Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: "Perché mi hai fatto così?". Forse il vasaio non è padrone dell'argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare?». 

Fondamento della «Libertà» umana è dunque per Agostino la «Grazia Divina», perché solo con la «Grazia» l'uomo diventa capace di dare attuazione alle proprie scelte morali. Va distinto in proposito il «Libero arbitrio», che è il desiderio di scegliere in linea teorica tra il «Bene e il Male», dalla «Libertà», che è invece la «Volontà» di mettere in pratica queste scelte. 

Secondo Agostino il «Tempo» è una creatura di Dio ; la sua dimensione è quella dell' «Eternità». Dio è «Principio e Fine», «Alfa e Omega». L'Universo non deriva da una divinità imperfetta, che abbia sentito il bisogno, la mancanza di creare, ma ne richiede l'esistenza, poiché il «Tempo» e l'evoluzione del creato, che sono all'interno di Dio, sarebbero inconcepibili senza una coscienza creatrice, preesistente a quella dell'uomo, che è il fine ultimo dell'opera divina. Se il «Tempo», però, non è un problema per Dio, esso lo è per la comprensione degli uomini. Il «Tempo» è, infatti, una strana realtà: il «passato» non è più, il «futuro» non è ancora e il «presente» non posso identificarlo nell'istante attuale, perché questo è subito trascorso, non è più. Quindi è una realtà costituita dal «Non-Essere» ma che modifica l' «Essere».

La soluzione di Agostino, che anticipava quella di Henri Bergson, fu assolutamente originale: per concepire il «Tempo», realtà dinamica, non si può utilizzare una definizione «statica», ma una «dinamica»; come non si può concepire un fiume sempre diverso per le sue acque se non esistesse il letto su cui scorrono, così lo scorrere del «Tempo» è accompagnato dalla «coscienza» che permette che si abbia la comprensione del «Tempo» come «memoria del passato», «attenzione al presente» e «attesa del futuro». Tre sono i tempi, «passato, presente e futuro»; ma forse si potrebbe propriamente dire: tre sono i tempi, il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Infatti questi tre tempi sono in qualche modo nell'«animo», né vedo che abbiano altrove realtà: il presente del passato è la «memoria», il presente del presente la «visione diretta», il presente del futuro l'«attesa»... Il tempo non mi pare dunque altro che una estensione (distensio), e sarebbe strano che non fosse estensione dell'animo stesso». (Confessiones XI, 14, 17: 20, 26; 26, 33). 

Nel pensiero di Agostino permane come esigenza fondamentale l'ansia e la ricerca della «Verità». Poiché l'indagine filosofica e la vita religiosa in lui coesistono e sono inseparabili, una tale ricerca si pone sul piano religioso. Ad esempio, egli affermava che i classici antichi sono solo una preparazione al Cristianesimo: se Cristo fosse vissuto al tempo di Socrate, Platone ed Aristotele, sicuramente costoro ne sarebbero diventati «Discepoli». Per Agostino, l'uomo deve vivere secondo la propria «Ragione», che è ciò che più lo caratterizza e, attraverso un percorso esistenziale, arrivare alla conoscenza di come stanno le «Cose» del mondo. Per evitare orientamenti errati nel proprio cammino di vita, bisogna confutare con l'ausilio della «Ragione» quelle filosofie che negano la «Verità», ad esempio lo «Scetticismo». È la «Verità» che sconfigge le ombre dello «Scetticismo», manifestandosi come la confutazione dell' «Errore». Agostino affermava che la «Verità» esiste: partendo dal dubbio scettico arrivava ad una certezza, perché non potrei dubitare se non ci fosse una «Verità» che appunto al dubbio si sottrae. 

L'intuizione con cui il dubbio si rende consapevole nella mia mente è già la «Verità» stessa che si fa strada: «Io provo a dubitare di tutto», diceva il filosofo, «ma, certamente, anche con il dubbio più radicale, sono certo che sto dubitando». Dunque: «Si enim fallor sum. Nam qui non est, utique nec falli potest, ac per hoc sum si fallor» («Se infatti mi sbaglio, vuol dire che esisto: chi non esiste non può nemmeno sbagliarsi; dunque, siccome mi sbaglio, esisto»). Almeno fino alla concezione cartesiana, esistevano due tipi di dubbio: il «dubbio scettico», un dubbio totale, radicale, che coinvolge tutto l'uomo e porta alla negazione della conoscenza e della «Verità»; il «dubbio agostiniano», un dubbio totale, ma non radicale, da cui hanno origine le certezze di cui l'uomo ha bisogno. Le caratteristiche della «Verità» per Agostino sono le seguenti: La «Verità» è «Infinita, Perfetta, Eterna», ed esisterà anche se il mondo scomparirà; La «Verità» si trova nel «mondo interiore dell'uomo», mentre gli scettici sostenevano che non vi fosse alcuna «Verità» o meglio che non fosse possibile trovarla; La «Verità» viene da Dio, che è presente nell'«Anima di ogni uomo». Ma la «Verità» è presente anche nell'uomo, quindi la «Verità» è la luce di Dio, la «Verità» è Dio. Questa concezione collega Agostino a Plotino che affermava che la divinità, cioè l' «Uno», è la «Verità».

Il processo conoscitivo, sostiene infatti Agostino, non può che nascere all'inizio dalla «Sensazione», nella quale il corpo è passivo, ma poi interviene l' «Anima» che giudica le cose sulla base di criteri che vanno oltre gli oggetti corporei. Egli osserva come ad esempio i concetti matematico-geometrici che applichiamo agli oggetti corporei abbiano le caratteristiche spirituali della «necessità, dell'immutabilità, e della perfezione», mentre gli oggetti in sé sono contingenti. Per esempio nessuna simmetria, nessun concetto perfetto si potrebbe riconoscere nei corpi se l'intelligenza non conoscesse già in anticipo questi criteri di perfezione. Da dove deriva questa perfezione? La risposta è che al di sopra della nostra mente c'è una somma «Verità», una «ratio superior», ossia più elevata del Mondo sensibile, dove le «Idee» restano immutate nel tempo e ci permettono di descrivere la realtà degli oggetti contingenti. Si può notare come Agostino assimili quei concetti perfettissimi alle «Idee» di Platone, ma diversamente da quest'ultimo egli le concepisce come i pensieri di Dio che noi intuiamo non in virtù della platonica reminiscenza, ma grazie a un' illuminazione operata direttamente da Dio. 

L'intelletto umano trova la «Verità» come Oggetto ad esso superiore: la «Verità» misura di tutte le «Cose», e lo stesso intelletto è misurato rispetto ad essa, al punto tale che in riferimento alla «Verità» non si potrebbe neppure parlare propriamente di Oggetto, bensì di Soggetto. È come se Dio, in quanto essere intelligibile, fosse un sole che illuminando tutte le «Cose» le rende perciò intelligibili: come è necessaria una luce corporea per vedere gli oggetti intorno a noi, così occorre gettare un'altra luce incorporea (Dio) per vedere le «Idee». 

La dimostrazione della «Verità» coincide quindi con quella dell'«Esistenza di Dio». In proposito, il filosofo utilizzava un ragionamento per assurdo per dimostrare l' «Eternità della Verità»: se un giorno la «Verità» non esistesse più, allora sarebbe vero che essa non esiste più. Ciò sarebbe un'assurda contraddizione in termini, per cui la «Verità» deve essere «Eterna». Essa scaturisce da un duplice movimento: da un lato l' «Anima» la cerca, secondo un assunto che presenta notevoli influenze platoniche: la fuga dal corpo avviene perché l' «Anima» ricerchi la «Verità». In questa ricerca ci sono anche influenze socratiche che si rifanno al motto «conosci te stesso». Dall'altro però, anche Dio vuole farsi conoscere dall'uomo, perché non è il Dio impersonale dei platonici: Egli ama le sue creature. Parafrasando San Paolo, Agostino affermava che l'uomo può raggiungere la «Verità», ma non la può possedere, poiché sarebbe possedere Dio; piuttosto, l'uomo ne viene posseduto. 

Ciò significa che Dio, per un verso, è «Immanente» alla ragione umana, cioè è presente dentro di noi come condizione del nostro pensare: i nostri pensieri nascono da Lui, sebbene Egli sia «inconscio» e prema perciò per affiorare alla nostra «coscienza». Per altro verso, però, Dio è «Trascendente», cioè è assolutamente Altro da noi: Egli è il traguardo ultimo dei nostri pensieri che sbadatamente rivolgiamo agli oggetti finiti. Poiché Dio è Infinito, non possiamo racchiuderlo in una definizione esaustiva. Per questo, nel risalire a Lui, occorre andare «oltre» i confini della nostra «Ragione», fino a vivere l' «estasi» intuitiva, nella quale Dio e il Mondo, che prima erano separati da un insormontabile divario, finalmente si riconciliano: «Il nostro cuore non ha pace finché non riposi in Te».

Donando la «Fede», Dio esaudisce così la richiesta di «Senso» da parte della «Ragione». Agostino cercò di approfondire il rapporto tra «Fede e Ragione» soprattutto in seguito alla polemica contro i manichei che giudicavano la religione cristiana credulona e primitiva. Per Agostino la «Fede cristiana» non è mai disgiunta dalla «Razionalità»: nel rapporto con Dio, il «Credere e il Comprendere» si condizionano a vicenda. Si crede purché si comprenda, e si comprende purché si creda. Agostino si accorse che il «Credere» è una condizione ineliminabile della vita umana, tutta fondata su credenze che noi prendiamo per buone prima di averle personalmente sperimentate. A ben guardare, tutte le nostre conoscenze si fondano su atti di «Fede», i quali però una volta accolti rendono possibile una coscienza critica, mostrando così la loro sensatezza. Questo è il significato del (credo ut intelligam), cioè «credo per poter comprendere». E a sua volta il «Comprendere» aiuta a riconoscere come vero ciò che prima andava accolto ciecamente per un atto di «Fede»: questo è il significato dell' (intellego ut credam), cioè «comprendo per poter credere». Si tratta anche qui di concetti di derivazione neoplatonica che vedono l' «Essere e il Pensiero», la «Realtà e la Ragione», uniti indissolubilmente in un rapporto di reciproca complementarità. 

Agostino affermò tra l'altro che il pensiero umano possiede una natura a immagine e somiglianza di quella divina, «Trinitaria», con tre funzioni per un solo «Ente»: pensare, intendere e volere, distinte e sovrapponibili. Un intervento del creatore in questa direzione induce nell'uomo una fiducia nelle proprie capacità intellettuali. La «Ragione» infatti si costituisce come tale solo in quanto si fa espressione del Principio sovra-razionale da cui emana, ma poiché essa non lo può dedurre da sé in termini logici, ha per questo bisogno di una «Rivelazione» da parte di Dio stesso, che venga incontro all'uomo illuminandolo. La «Fede» è dunque il completamento della «Teologia Negativa», presentandosi come l'aspetto positivo e rivelato di Dio. In virtù del nesso che lega il «Credere e il Capire», la Chiesa cattolica e le Scritture hanno per Agostino titoli sufficienti per poter richiedere «Fede» nelle loro affermazioni. 

Grande impegno richiese ad Agostino lo studio della natura della «Trinità Cristiana». Da giovane egli riteneva che questa fosse assimilabile alle tre «Ipostasi» di Plotino (Uno, Intelletto e Anima): comunque Agostino, profondendosi nella lunga elaborazione del «De Trinitate», andò oltre la concezione di Plotino e interpretò le sue «Ipostasi» in «Senso» analogico, come un particolare modo di esprimere la «Triade Divina», riconducibile a tre momenti, tre facoltà spirituali di una stessa realtà che rimane pur sempre «Una»: non le vide più subordinate l'una all'altra, ma in un rapporto paritario. L'impronta di questa «Triade» nell'uomo è rintracciabile diversamente a seconda della prospettiva con cui la si guardi. I tre momenti di cui consta possono essere ad esempio: «Spirito, Conoscenza, Amore»; oppure «Memoria, Intelligenza, Volontà»; oppure «esse, nosse, velle» (essere, conoscere, volere). Nella prospettiva dell'Amore, Padre, Figlio e Spirito Santo corrispondono all'Amante, all'Amato e all'Amore: Rispetto all'ortodossia greco-orientale che insisteva sulla distinzione fra le tre Persone della «Trinità», Agostino resta quindi fedele alla tradizione latina dandone un'interpretazione unitaria; per lui le tre Persone sono solo tre modi di agire, tre forme di relazione di un'unica sostanza divina. 

Secondo Agostino, si possono identificare due città, ovvero due comunità fondamentali in cui sono riuniti gli esseri umani: la «Città di Dio», cioè la comunità di coloro cui la «prescienza» divina ha accordato la «Fede» in virtù della sua «Grazia», e che saranno destinati a salvarsi e risorgere. E la «Città degli uomini», ovvero la comunità governata dall'amor sui (dall'amore di sé) e delle ricchezze terrene, opposta alla prima. Secondo Agostino, tuttavia, permaneva un abisso tra Dio e il Mondo. La «Divina provvidenza», pur guidando il cammino dell'umanità, rimane esterna e trascendente rispetto ad esso: lo guida, nel senso che l'indirizza fino al punto in cui la Storia avrà termine, per sboccare in ciò che è «Oltre il Tempo». Principio e Fine restano pertanto al di là e «trascendenti» . Nella «Città di Dio» Agostino ha coniato una formula che l'avvicina molto a Cartesio: «si fallor, sun (Se m'inganno, sono)» (XI,26). Su questa certezza e indefettibilità della «Verità» Agostino ha imbastito la sua prova della «Immortalità dell'Anima». Ma nella dimostrazione dell'Immortalità non va oltre questo polisillogismo, che è di derivazione platonica e diventerà luogo comune del pensiero Cristiano:«se la "Verità" è indistruttibile, l'Anima, sede della "Verità", lo è essa pure.» 

Agostino fece riflessioni anche sulle «passioni» e sui «desideri» dell'uomo; egli affermava che, esistendo «Volontà» in tutte le passioni, le passioni altro non sono che la «Volontà» stessa. I vari sentimenti umani non sono altro che l'espressione e la manifestazione della nostra «Volontà»; tale legame fra «Volontà e Sentimenti» è testimoniato dal sentimento più forte, ovvero l' «Amore»: il «Motore della Volontà». 

Il problema Morale proposto da Agostino dunque riguardava il «Cosa amare», e non il perché amare o se amare. A questa domanda, Agostino rispondeva che, tra le infinite cose che si possono amare, si possono distinguere due «vie d'Amore»: l' «Amore per le Creature», che porta al disprezzo del Creatore, e l' «Amore per il Creatore», che porta al disprezzo delle Creature. Il punto centrale della Morale agostiniana è proprio la «Carità» (dal latino charitas), intesa nel «Senso» originale di «Amore», che deve tendere verso Dio, poiché Dio stesso ne è sorgente; infatti, se la «Volontà» procede naturalmente verso un qualche «Bene», seppur basso, dunque deve e può procedere verso Colui che è il «Bene Assoluto», poiché il «Bene Assoluto» richiama l' «Amore» come l' «Amore» richiama il «Bene Assoluto» stesso. L' «Amore» a cui Agostino si dedicò in particolare durante i suoi anni di vescovato, tende per natura ad unire, cioè all'«Uno». La «Radice dell'Amore», quindi, è l' «unione con Dio» attraverso la quale nasce e si nutre l' «Amore», che, ponendosi come centro della «Morale» e della «Volontà», non può che generare il «Bene».