lunedì 2 dicembre 2019

APOCALISSE



Composta sullo scorcio del I secolo e divenuta uno dei testi biblici più affascinanti nella storia della tradizione e dell’arte cristiana, l’Apocalisse (in greco, “Rivelazione”) è un’opera di grande potenza e suggestione, proveniente dall’ambito delle Chiese giovannee dell’Asia Minore, come attestano le lettere indirizzate alle sette comunità di Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia e Laodicea, presenti nei capitoli 2-3. Anche se il linguaggio e i simboli appartengono al genere “apocalittico, una corrente letteraria e teologica molto diffusa nel giudaismo di quell’epoca, il libro si autodefinisce «profezia» (1,3 e 22,7.19), cioè interpretazione dell’azione di Dio all’interno della storia.

Infatti, anziché essere un infausto oracolo sulla fine del mondo, come spesso si è creduto, l’Apocalisse è un messaggio concreto di speranza rivolto alle Chiese in crisi interna e colpite dalla persecuzione di Babilonia o della prostituta o della bestia, cioè della Roma imperiale, perché ritrovino fermezza nella fede e coraggio nella testimonianza. Il fine ultimo verso cui sta muovendosi la storia non è il trionfo del drago, simbolo del male, ma quello dell’Agnello, cioè Cristo, e alla Babilonia devastatrice subentrerà per sempre la Gerusalemme della pace e della vita.

Il libro è tutto costellato di simboli e di segni, tra i quali dominano i settenari posti al centro della composizione, nei capitoli 6-15: i sette sigilli spezzati, le sette trombe risuonanti, i sette angeli con le sette coppe del giudizio. Colori, animali, sogni, visioni, numeri, segni cosmici, città sono le componenti di questa interpretazione della storia alla luce della fede e della speranza.

All’inizio e alla fine dell’opera si hanno le due scene decisive: da un lato, la corte divina con l’Agnello-Cristo e il libro della storia umana (capitoli 4-5); dall’altro, l’affresco del duello definitivo tra Bene e Male, tra la Prostituta imperiale e la Sposa ecclesiale, suggellato dall’epifania della Gerusalemme celeste, ove si attende la venuta in pienezza del Cristo salvatore (capitoli 16-22).

Nota Finale

L’Apocalisse (la parola significa “rivelazione”) appartiene, come il libro di Daniele, a una forma letteraria insolita per la nostra cultura, con abbondanza di simboli e di visioni. Destinataria del libro è la Chiesa, rappresentata da sette Chiese dell’Asia Minore. Sono Chiese in crisi e perseguitate, alle quali vengono indirizzate sette lettere, in cui si incoraggia, si loda, si corregge. Poi segue una serie di visioni, che danno il senso vero della storia. Al centro, il destino della Chiesa nella lotta cosmica tra Dio e satana, di cui lo scontro fra le sette Chiese dell’Asia Minore e l’impero romano rappresenta il momento terrestre. Autore, data e struttura dell’opera restano problemi discussi, sembra però innegabile il legame con la tradizione giovannea. L’Apocalisse è fondamentalmente una profezia e, dunque, non mira a soddisfare curiosità occulte, ma vuole aiutare a leggere la storia presente – che appare dura e contraddittoria – alla luce della Pasqua di Cristo.



lunedì 4 novembre 2019

LETTERA DI GIUDA



Questo breve scritto è posto sotto il nome di Giuda: potrebbe essere sia l’apostolo elencato da Luca e Giovanni tra i dodici (Matteo e Marco hanno, invece, il nome Taddeo), sia il Giuda citato tra i “fratelli di Gesù” (Marco 6,3). L’opera, comunque, riflette l’ambito giudeo-cristiano, come è attestato anche dall’uso – accanto all’Antico Testamento – degli scritti apocrifi giudaici, cioè di testi non tenuti come ispirati da Dio, ma assai diffusi e conosciuti (in particolare sono evocati il testamento di Mosè – chiamato anche Assunzione di Mosè – e il libro di Enoch).

Come nella seconda lettera di Pietro, si hanno di mira, in questi 25 versetti, i falsi maestri che stanno sconvolgendo la comunità cristiana. Essi sono attaccati con veemenza come empi, dissoluti, impuri, ribelli, infami, sobillatori, svergognati, adulatori, superbi e impostori. Si tratta di una vera e propria sequenza di insulti, che sono distribuiti in tutto il testo e che hanno il loro vertice nei versetti 12-13, segnati da immagini pittoresche, con cui si esprime la loro condanna.

Gli errori che essi propagavano comprendevano probabilmente dottrine gnostiche, simili a quelle condannate nelle lettere di Giovanni (la negazione dell’incarnazione di Cristo), atteggiamenti libertini, tendenze stravaganti che minavano «la santissima fede», disgregando così l’edificio spirituale della Chiesa.

La lettera si rivela, quindi, come una catechesi essenziale destinata a mettere in guardia i cristiani dai pericoli delle degenerazioni religiose. Rimane viva, però, la certezza nel sostegno del Signore, che può conservare i suoi fedeli immuni da cadute così da avviarli al destino di gloria che li attende (versetti 24-25).

Nota Finale

È difficile dire chi sia l’autore di questa lettera, che si firma Giuda e si qualifica come “servo di Gesù Cristo, fratello di Giacomo”. Certamente non è Giuda Iscariota, il traditore, e forse neppure l’altro apostolo omonimo menzionato nei vangeli. Probabilmente l’autore scrive agli stessi destinatari della lettera di Giacomo, con l’autorità della sua parentela, per metterli in guardia da nuovi pericoli contro la fede. Infatti, con un linguaggio rude e pittoresco, condanna l’insegnamento dei falsi maestri. Questa brevissima lettera, nella quale si sente l’influenza di Paolo e che viene citata nella seconda lettera di Pietro, è stata verosimilmente redatta alcuni anni prima della fine del I secolo d.C.



giovedì 3 ottobre 2019

TERZA LETTERA DI GIOVANNI



Autore di questo nuovo biglietto è, come per la seconda lettera, un «presbìtero» non meglio identificato, che scrive a un certo Gaio, elogiato per la generosa ospitalità da lui offerta ai missionari del vangelo. La tradizione ha visto nella figura del «presbìtero» quella dell’evangelista Giovanni. In queste poche righe troviamo anche una segnalazione riguardante un altro personaggio, Diotrefe.

Costui è ben diverso da Gaio e dalla sua generosità. È un uomo ambizioso che vorrebbe far carriera fino ad occupare «il primo posto» e soprattutto è ostile ad accogliere fraternamente i missionari itineranti, impedendo anche agli altri di farlo (versetti 9-10). Entra in scena pure un terzo personaggio, Demetrio – forse il latore di questa lettera –, che viene invece lodato con entusiasmo (versetto 12).

Il tema dominante dello scritto è, quindi, quello dell’accoglienza, espressione dell’amore e della solidarietà tra le varie Chiese. Come nelle lettere precedenti, anche in questo caso dovremo identificare, quali destinatarie, le varie comunità cristiane dell’Asia Minore, che, tra l’altro, sono esplicitamente menzionate nelle “lettere” di apertura del libro dell’Apocalisse (capitoli 2-3).

Da questi testi e dalle lettere di Giovanni si riesce a intuire che, al contrario di certe nostre idealizzazioni, anche la Chiesa delle origini fu attraversata da tempeste e da lacerazioni, da crisi e travagli interni, e i pastori – come «il presbìtero» autore di questo breve scritto – erano costretti a lanciare moniti severi.

Nota Finale

La terza lettera è inviata a un certo Gaio, membro fervente di una Chiesa dell’Asia Minore. Giovanni lo mette in guardia dall’ambizione gelosa di un certo Diotrefe (forse il capo della Chiesa locale) e gli raccomanda invece Demetrio, uno dei suoi missionari, probabilmente latore della missiva. Lo scopo di questa lettera è quello di esortare Gaio a perseverare nella sua opera di sostegno ai missionari. Le lettere dell’apostolo sono composte verso la fine del I secolo d.C. e, dal punto di vista cronologico, la terza è probabilmente la prima, mentre la prima sarebbe l’ultima. Ultimo fra gli autori “cattolici”, Giovanni, che si autodefinisce il “presbìtero”, cioè l’”anziano” per eccellenza, scrive per difendere l’inviolabile deposito della fede.



lunedì 9 settembre 2019

SECONDA LETTERA DI GIOVANNI



Come la successiva terza lettera, anche questo scritto rimanda a un non meglio precisato «presbìtero», che la tradizione identificherà con l’evangelista Giovanni. Siamo in presenza di una breve missiva indirizzata a una Chiesa locale dell’Asia Minore, chiamata in modo curioso «Signora eletta», un termine che non permette un’identificazione più precisa, ma in uso presso le prime comunità.

Nella linea di certe pagine del quarto vangelo, si propone innanzitutto il «comandamento nuovo» che è stato affidato da Gesù, nelle ultime ore della sua vita terrena, ai suoi discepoli riuniti nel Cenacolo, cioè «che ci amiamo gli uni gli altri» (versetto 5). E, come è noto, questo è il precetto fondamentale che già era stato intensamente ribadito dalla prima lettera di Giovanni.

C’è, però, un secondo tema che domina questo breve scritto e che è specchio di una crisi profonda della comunità cristiana a cui il «presbìtero» si rivolge. Infatti, sta diffondendosi la negazione dell’incarnazione di Cristo. I «seduttori» che sconvolgono la «Signora eletta» - si afferma nel versetto 7 - «non confessano che Gesù Cristo è venuto nella carne», rinnegando così una dottrina fondamentale.

Questa tentazione demoniaca, che proviene dall’anticristo, nasce da quella che verrà poi chiamata l’“eresia gnostica”: essa esalta la conoscenza pura dell’anima ed esclude l’umiliazione del Verbo divino nella carne umana, misera e fragile. In questo modo si nega il mistero centrale del cristianesimo che il «presbìtero» vuole, invece, con forza riaffermare, per riportare la Chiesa alla purezza della sua fede.

Nota Finale

Questa seconda lettera di Giovanni è indirizzata a una Chiesa dell’Asia Minore chiamata, con un gioco di parole intraducibile, la “Signora eletta”. Si tratta di una comunità a noi sconosciuta, minacciata dalla propaganda di falsi maestri, i quali negano che il Figlio di Dio si sia veramente incarnato e non seguono la sua dottrina. In loro, l’apostolo vede i lineamenti dell’anticristo. Giovanni vuole mettere in guardia i credenti circa l’insegnamento di questi falsi maestri; ritiene che coloro che possiedono la conoscenza della verità devono anche continuare a camminare nella verità e – ribadendo un tema espresso nella prima lettera – devono amarsi gli uni gli altri, vivendo nella luce del comandamento venuto da Dio.



venerdì 2 agosto 2019

PRIMA LETTERA DI GIOVANNI



Priva di intestazione, questa lettera, attribuita all’evangelista Giovanni, è in realtà molto simile a un’omelia o a un trattato teologico, forse destinato a circolare tra le varie Chiese dell’Asia Minore legate alla tradizione giovannea. Buon conoscitore della lingua greca, l’autore rivela però una matrice giudaica e un orizzonte legato a temi già presenti nel quarto vangelo, anche se impostati in modo nuovo e originale, e riproposti nel contesto delle prime eresie gnostiche.

Dopo la solenne professione di fede nell’incarnazione di Cristo presente nel prologo, questo scritto sviluppa nei capitoli 1-2 l’antitesi “luce-tenebra”, come appare dall’iniziale definizione di Dio, luce priva di qualsiasi tenebra (1,5). La successiva serie di capitoli (3-5) è dominata dal tema dell’«agape», cioè dell’amore, che è un’altra definizione di Dio (4,8.16). Da lui, infatti, promana l’amore che si incarna nel Figlio suo Gesù Cristo, pronto a dare «la sua vita per noi» (3,16).

Trasformato dalla forza dell’amore divino in figlio di Dio, il cristiano ha un unico impegno da praticare, quello dell’amore fraterno (4,20-21). Si leggono, così, tutta la storia della salvezza e tutta la morale alla luce di questa realtà fondamentale, l’«agape», che ha avuto il suo segno visibile più alto nella croce di Cristo, sorgente da cui scaturisce l’amore continuamente effuso nella Chiesa (5,5-8).

C’è, però, un altro appello che risuona in modo vigoroso in questa lettera, ed è quello alla fede nell’incarnazione di Cristo. Cominciavano, infatti, a serpeggiare alcune false dottrine che negavano «Gesù Cristo venuto nella carne» (4,2), considerando ciò un’umiliazione indegna del Verbo eterno, del Figlio di Dio. Questa profonda omelia o trattato si propone, dunque, di ribadire due punti capitali del cristianesimo, la purezza della fede e la pienezza dell’amore.

Nota Finale

La tradizione ecclesiastica attribuisce all’apostolo Giovanni, oltre il quarto vangelo, tre lettere, di lunghezza e importanza disuguali. La prima è un’omelia dottrinale piuttosto ampia, le altre due sono semplici biglietti. Naturalmente si discute sulla loro autenticità, ma non si vede quale altra ragione, al di fuori del dato di fatto, abbia potuto far attribuire a Giovanni scritti così umili. Nel loro insieme, essi offrono uno spaccato realistico della vita delle Chiese dell’Asia Minore alla fine del I secolo d.C. I temi dominanti della prima lettera sono quelli della fede e della carità. Partendo dalla definizione che Dio è “Luce” e “Amore”, se ne deduce l’esigenza etica dell’amore reciproco e della fede nella realtà dell’incarnazione: Gesù vero Dio e vero uomo. Secondo alcuni, la lettera costituirebbe una specie di prefazione al vangelo.   




martedì 2 luglio 2019

SECONDA LETTERA DI PIETRO



Sotto il patronato di «Simone Pietro, servo e apostolo di Gesù Cristo» (1,1) è posta anche un’altra lettera che è, però, per linguaggio, stile e argomento diversa dalla prima e più vicina a quella di Giuda. L’incertezza sulla paternità petrina diretta era già presente nel III secolo. Senza mettere in dubbio la sua canonicità e l’ispirazione divina, possiamo considerare questo scritto come il frutto tardo della tradizione petrina (siamo alla fine del I secolo o all’inizio del II secolo).

Il tono della lettera è quasi quello di un testamento e ha al centro una severa polemica contro i «falsi maestri» o «profeti» che introducono eresie rovinose (2,1). Si pensa che costoro siano i primi gnostici, cioè quei cristiani che presentavano una salvezza legata a una conoscenza sempre più alta e sofisticata, riservata solo agli eletti. Liberi dal peso del corpo, lasciavano che quest’ultimo si abbandonasse al suo istinto, mentre la mente e l’anima si libravano nei cieli della contemplazione. Si configurava, così, anche una forma di libertinismo morale (2,18-22).

In particolare, i falsi maestri deformavano due temi rilevanti della predicazione cristiana. Il primo è quello della “parousìa” o venuta ultima di Cristo a suggello della storia: essi la negavano, convinti che «tutto rimane come al principio della creazione» (3,4) e non ci sia una piena redenzione di tutto l’essere. Il secondo punto debole dei falsi predicatori è l’uso spregiudicato delle sacre Scritture, in particolare delle lettere di Paolo, ormai diffuse nelle comunità cristiane (3,15-16).

Il nostro autore insiste sulla corretta interpretazione della Bibbia, che non può essere soggettiva (1,20-21), e che ha come punto di unità, nella molteplicità delle tappe storiche della rivelazione, la figura di Cristo. La seconda lettera di Pietro è, dunque, una significativa testimonianza della Chiesa delle origini, dei suoi travagli interni, ma anche della sua limpida fedeltà alla parola di Dio e a Cristo.

Nota Finale

Su questa seconda lettera attribuita a Pietro, gli studiosi sono divisi: alcuni negano del tutto che sia di mano dell’apostolo, altri parlano di un caso di pseudonimia, altri infine pensano che si tratti di uno scritto di Pietro ripreso dopo il 70 d.C. da un discepolo, che l’avrebbe completato ispirandosi alla lettera di Giuda. L’importante, in ogni caso, è che esso rappresenta un’eredità autentica dell’epoca apostolica. La forma letteraria è quella del “testamento”, che mette sulla bocca di una grande personalità le ultime raccomandazioni ai discepoli: una maniera per onorare un maestro di vita e perpetuarne l’insegnamento. Qui l’insegnamento verte principalmente su due punti: mettere in guardia di fronte ad alcuni falsi maestri e rispondere all’inquietudine causata dal ritardo della venuta finale di Cristo.



mercoledì 12 giugno 2019

PRIMA LETTERA DI PIETRO



Scritta in greco raffinato, la prima lettera di Pietro è probabilmente composta a Roma, menzionata come Babilonia (5,13), secondo un uso caro all’Apocalisse, e destinata ai cristiani perseguitati dell’Asia Minore. Lo scritto, più che direttamente all’apostolo Pietro, viene attribuito dagli studiosi alla tradizione petrina e si dirige alla seconda generazione dei cristiani. Essi sono quelli che amano Cristo, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credono in lui (1,8).

Alcuni hanno individuato nella lettera i toni di un’omelia per il battesimo cristiano o addirittura lo schema della liturgia battesimale così come veniva celebrata a Roma, oltre a citazioni di inni e di professione di fede. Siamo, dunque, in presenza di uno specchio del Cristianesimo delle origini, quale era proclamato e vissuto nel cuore dell’impero romano, nella consapevolezza di essere “pellegrini” verso un altro regno (1,17) e di essere una “fraternità” sparsa nel mondo (5,9).

Al centro dello scritto domina la figura di Cristo, che è raffigurato come l’agnello sacrificale senza macchia, il cui sangue è versato per il nostro riscatto; egli è la pietra vivente scartata dagli uomini, ma scelta da Dio come fondamento per la sua Chiesa; egli è il Servo sofferente del Signore cantato dal profeta Isaia (capitolo 53) ed è il pastore delle nostre anime. Accanto a Cristo appare la Chiesa, che è rappresentata con due simboli a prima vista contrapposti.

Da un lato, essa viene descritta come una casa, una famiglia, un tempio. Su di essa si abbatte «l’incendio» della persecuzione (4,12): necessaria è, allora, la costanza, consapevoli di essere «la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato» (2,9). Dall’altro lato, la Chiesa è nomade, è “fuori casa” (come si dice letteralmente in 1,17 e 2,11), è pellegrina verso la pienezza della vita, nella patria celeste della perfetta comunione con Dio.

Nota Finale

Questa prima lettera delle due attribuite a Pietro è sicuramente autentica, data la grande somiglianza nella forma e nei contenuti con la catechesi dell’apostolo, nota attraverso il libro degli Atti e il vangelo di Marco. Viene spedita probabilmente da Roma (chiamata nel testo “Babilonia”), qualche anno prima della morte di Pietro, che la tradizione più attendibile colloca nel 64 o nel 67 d.C., sotto Nerone. I destinatari sono le comunità cristiane di alcune regioni della zona centrale e settentrionale dell’Asia Minore (odierna Turchia). La finalità è il conforto e il sostegno dei fedeli che stanno passando in mezzo al “fuoco” della prova, anche se forse non si tratta ancora delle vere e proprie persecuzioni ufficiali. Qualche studioso considera questa lettera una omelia battesimale, nella quale viene dapprima riaffermata la dignità del battezzato e poi sviluppata una catechesi sugli impegni della vita cristiana, soprattutto come partecipazione alla storia di dolore e di gloria del Cristo morto e risorto.



venerdì 7 giugno 2019

LETTERA DI GIACOMO



Dopo l’epistolario paolino e la lettera agli Ebrei, sono raccolti nel Nuovo Testamento sette scritti che la tradizione ha chiamato “Lettere cattoliche”, cioè destinate all’intera Chiesa diffusa per il mondo. In realtà, nonostante l’aspetto esteriore, più che lettere in senso stretto, questi testi sembrano omelie o catechesi destinate a varie comunità cristiane, soprattutto di origine giudaica.

La prima che incontriamo ha come autore dichiarato «Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo» (1,1): si è pensato, soprattutto in passato, all’apostolo Giacomo, fratello di Giovanni, oppure potrebbe trattarsi di quel Giacomo «fratello del Signore», cioè membro del parentado nazaretano di Gesù, che fu vescovo di Gerusalemme ed è presente con un certo rilievo negli Atti degli Apostoli (vedi At 12,17; 15,13). Certo è che noi siamo in presenza di un maestro cristiano che vuole indicare ai suoi ascoltatori-lettori- probabilmente di origine giudaica – un itinerario di vita spirituale che ha come sorgente la «sapienza», dono perfetto che viene dall’alto e discende dal Padre della luce (1,17).

Tuttavia quell’itinerario si svolge anche con l’impegno umano che si deve manifestare nelle «opere», senza le quali la fede è morta. C’è chi ha pensato che una simile dichiarazione (2,14-24) voglia essere polemica nei confronti di Paolo, il quale aveva esaltato il primato assoluto della fede e della grazia. In realtà si tratta di sottolineature differenti di aspetti entrambi rilevanti, cioè il dono divino e la risposta libera dell’uomo. In ciò, Giacomo e Paolo si completano a vicenda. Questo impegno del credente è rappresentato da Giacomo in una serie di temi morali.

C’è la denuncia sferzante della ricchezza e delle ingiustizie sociali; c’è l’invito alla costanza e alla fedeltà nel momento della tentazione; c’è l’appello reiterato a controllare il linguaggio (particolarmente vivace è, al riguardo, il capitolo 3). C’è, infine, lo spazio riservato alla preghiera e, a questo proposito, è significativo il passo di 5,13-15, ove si parla della preghiera per i malati. Il Concilio di Trento ha attribuito a questo testo una rilevanza particolare, considerandolo come un’affermazione del sacramento dell’unzione degli infermi.

Nota Finale

Nella Bibbia, dopo le lettere di Paolo, sono collocate sette lettere che la tradizione attribuisce a diversi discepoli di Gesù. Solitamente sono riunite sotto il nome di “Lettere cattoliche”, cioè “universali”, perché sono destinate a un gruppo di Chiese o ai Cristiani in generale. Più che delle vere lettere, sono dei brevi codici di vita cristiana, da avvicinarsi ai libri sapienziali dell’Antico Testamento. La prima di queste lettere, che sono raccolte senza alcun ordine cronologico, è indirizzata “alle dodici tribù disperse nel mondo”, cioè a tutte le comunità giudeo-cristiane viventi fuori della Palestina. L’autore si presenta come “Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo”, ricordato anche da Paolo, nella lettera ai Galati, come “colonna” della Chiesa-madre di Gerusalemme insieme con Pietro e Giovanni. Per la data di composizione, vi sono ipotesi contrastanti; probabilmente la lettera risale agli anni 58-62 d.C. e si tratta di un intervento polemico nei riguardi di alcuni cristiani che deformavano l’insegnamento di Paolo sul problema della fede e delle opere. Ciò che salva, sottolinea l’autore, è la fede viva, quella che genera le opere della carità.



mercoledì 5 giugno 2019

LETTERA AGLI EBREI



Subito dopo l’epistolario paolino, è posto un lungo testo intitolato fin dall’antichità “Lettera agli Ebrei”. Già lo scrittore cristiano Origene nel III secolo si chiedeva: «Chi ha scritto questa lettera? Il vero, Dio solo lo sa!». Incerto è, dunque, l’autore: anche se non manca qualche legame con Paolo, la lingua, lo stile e il pensiero sono nuovi. Incerti sono anche i destinatari, certo non Ebrei, ma piuttosto giudeo-cristiani, e incerte sono pure le coordinate storiche e geografiche dello scritto.

L’unica cosa certa è che siamo in presenza di un capolavoro letterario e teologico (il suo è forse il greco più elegante dell’intero Nuovo Testamento). Si tratta di una grandiosa omelia, accompagnata da un biglietto (13,22-24), al cui centro domina la figura di Cristo, sacerdote perfetto della nuova alleanza tra Dio e l’umanità. Il profilo di questa immagine centrale è tracciato ricorrendo all’Antico Testamento, alle sue pagine sui sacrifici e sulla liturgia, e alla figura di Melchisedek, il re-sacerdote che incontra Abramo (Genesi 14).

Se la parte fondamentale dell’opera è dedicata a Cristo, Dio e uomo, superiore agli angeli e solidale con l’uomo, sommo sacerdote fedele e misericordioso, un’ampia sezione è riservata anche all’impegno del cristiano, soprattutto alla fede, che è cantata nel capitolo 11 attraverso una vera e propria galleria di personaggi biblici, proposti come modelli alla comunità, destinataria di questa intensa omelia.

La meta ultima dell’esperienza di fede è, però, l’incontro pieno e definitivo con Dio, seguendo Cristo che porta la croce: la patria del cristiano non è quaggiù, ma è oltre il tempo e lo spazio. È su questi “sentieri diritti” che dobbiamo avviarci, tenendo fisso lo sguardo su «Gesù Cristo, lo stesso ieri e oggi e sempre» (13,8).

Nota Finale

Più che una lettera vera e propria, questa agli Ebrei è lungo sermone scritto con una profonda conoscenza della Bibbia. Linguaggio, stile e dottrina inducono a pensare che l’autore non sia Paolo, ma qualcuno che si muove nella sua linea di influenza. Anche i destinatari restano nel vago: si pensa a comunità giudeo-cristiane molto disorientate dalle persecuzioni e forse tentate di tornare al giudaismo. La crisi di fede appare così forte che alcuni studiosi avanzano l’ipotesi che destinatari della lettera siano addirittura dei sacerdoti del tempio di Gerusalemme, convertiti al Cristianesimo. Per ricondurli all’entusiasmo del primo amore per Gesù Cristo, l’unico vero eterno sacerdote-pontefice, mediatore della nuova e definitiva alleanza, si sottolinea la superiorità del sacerdozio di Cristo su quello di Aronne e del suo sacrificio sui sacrifici levitici. Incerta è anche la data di composizione della lettera, per quanto si possa collocarla qualche anno prima del 70 d.C.



giovedì 9 maggio 2019

LETTERA A FILEMONE



Ormai «vecchio e prigioniero» (1,9), Paolo stende questo breve scritto simile a un biglietto, che è stato definito da uno studioso «un vero capolavoro di tatto e di cuore». Egli lo indirizza a Filemone, un amico ricco e generoso, «collaboratore» nell’annunzio del vangelo, nella cui casa si riuniva una comunità di cristiani. A lui l’apostolo chiede un favore piuttosto sorprendente. Durante la sua carcerazione – in realtà durante gli arresti domiciliari di Roma, attorno agli inizi degli anni 60 – Paolo aveva incontrato e «generato» nella fede cristiana uno schiavo di nome Onèsimo.

Ebbene, costui era fuggito proprio dalla casa di Filemone: secondo il diritto romano, egli doveva essere restituito al padrone, il quale ne avrebbe deciso la sorte che meglio gli sarebbe stata gradita. La proposta che Paolo avanza è significativa della nuova visione che il Cristianesimo stava introducendo nelle relazioni sociali, ed è per questo che il piccolo scritto diventa interessante e importante.

L’apostolo, dunque, invita l’antico padrone dello schiavo Onèsimo a riaccoglierlo non più come «schiavo», ma come «fratello carissimo», perché ormai in Cristo non c’è più «né schiavo né libero», ma tutti sono una cosa sola in lui (Galati 3,28). Il biglietto diventa, perciò, un appello all’amore, alla genuina libertà cristiana, alla fraternità oltre le distinzioni sociali e le classi.

Nella breve lettera Paolo fa anche balenare la speranza di essere restituito alla comunità dei cristiani e di essere ospitato proprio presso la casa di Filemone, al quale chiede di preparargli «un alloggio» (1,22). Non sappiamo se questo sogno poté realizzarsi, prima della morte dell’apostolo sotto Nerone imperatore.  

Nota Finale

Si tratta di un brevissimo biglietto che Paolo invia da Roma, dove si trova prigioniero, al suo amico Filemone, per invitarlo a riprendere uno schiavo, Onèsimo, fuggito per seguire l’apostolo. Adesso, convertito e pentito, Onèsimo è pronto a ritornare dal suo padrone. Paolo si appella alla fede comune, per la quale tutti sono diventati “servi del Signore” e quindi “fratelli”. Egli non chiede l’abolizione della schiavitù sul piano politico-sociale, cosa del resto praticamente impossibile a quei tempi, ma inizia la “rivoluzione culturale” cristiana, che introduce un nuovo giudizio sull’uomo e sulla sua inalienabile dignità. Infatti, come lo stesso apostolo scrive nella lettera ai Galati: “Non c’è più Giudeo né Greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”.



martedì 7 maggio 2019

LETTERA A TITO



Tito, collaboratore di Paolo, era di origine pagana e forse era stato convertito dallo stesso apostolo, se almeno si intende in questo senso l’appellativo di «vero figlio nella fede comune», che gli viene rivolto proprio in apertura alla lettera (1,4). Anche se gli Atti degli Apostoli non lo menzionano mai, la presenza di Tito accanto a Paolo è costante ed è sorgente di serenità, di conforto e di amicizia nelle fatiche e nelle difficoltà dell’evangelizzazione, come si intuisce soprattutto da alcuni passi della seconda lettera ai Corinzi (in particolare nei capitoli 7-8).

Lo scritto indirizzato a Tito è piuttosto denso a livello teologico e cerca di riproporre la fede cristiana nelle sue radici fondamentali: esemplare in questo senso è il brano presente in 2,11-14, ove vengono messe in luce le tappe della storia della salvezza – a partire dall’incarnazione fino alla piena manifestazione o “epifania” gloriosa di Cristo – e si esalta anche la risposta morale del cristiano. Lo sfondo di questa professione di fede è probabilmente quello della catechesi battesimale.

Si ritrovano, poi, in queste pagine altri elementi caratteristici delle lettere pastorali paoline. Si delinea, così, il ritratto dei presbìteri e dei “vescovi” (1,5-9), nei cui confronti Tito ha una funzione di responsabilità all’interno della Chiesa di Creta a nome dell’apostolo. Appaiono ancora una volta i falsi maestri che turbano la coscienza dei cristiani: nei loro confronti si pronunziano a più riprese parole piuttosto aspre di condanna (1,10-16; 3,9-11), non esitando a ricorrere a una citazione di un poeta cretese del VI secolo a.C., Epimenide di Cnosso, che aveva bollato i suoi connazionali come «sempre bugiardi, cattive bestie, ventri pigri» (vedi 1,12).

Come nelle precedenti lettere a Timoteo, anche in questa destinata a Tito si ha una rappresentazione dal vivo dei problemi pastorali delle prime comunità cristiane, con un’attenzione particolare all’impegno coerente nella fede e nella carità. Un impegno che viene giustificato ricorrendo all’insegnamento tradizionale cristiano, richiamato nelle sue componenti fondamentali come guida contro le tentazioni delle deviazioni dottrinali, che minacciavano la fede della comunità.

Nota Finale

Tito è uno dei primi Greci convertiti al Cristianesimo. Battezzato da Paolo, partecipa con lui all’assemblea di Gerusalemme, organizza per suo incarico la colletta in favore di quella Chiesa e, durante la seconda prigionia romana dell’apostolo, viene mandato a predicare in Dalmazia. Paolo gli invia questa lettera a Creta, dove l’ha lasciato a organizzare “ciò che rimane da fare”, e lo esorta a insegnare a ogni categoria di persone “ciò che è secondo la sana dottrina”, a costruire in ogni città i presbìteri (capi delle comunità locali), a vigilare sui rapporti con le autorità e con le diverse culture in base a un criterio di rispetto e di intelligente vigilanza critica. 



sabato 4 maggio 2019

SECONDA LETTERA A TIMOTEO



Anche questo scritto, come il precedente indirizzato al discepolo di Paolo, Timoteo, è segnato dal vivo rapporto che intercorre tra l’apostolo e il suo collaboratore. Anzi, la lettera acquista talora la tonalità di un vero e proprio testamento che Paolo, in carcere a Roma e alla vigilia del martirio, destina a chi gli è stato vicino nei giorni della prova e dell’impegno missionario, descritti con le immagini della battaglia e della corsa (si veda in particolare il brano presente in 4,6-8).

In questa ideale consegna estrema hanno rilievo due componenti. Da un lato, emerge il profilo del vero pastore, che ha il suo modello proprio in Paolo (1,1-2,13 e 3,10-4,5). Dall’altro lato, appare con durezza la denunzia contro i pericoli della degenerazione della fede e della vita cristiana all’interno della comunità (2,14-3,9): è una pagina molto aspra, che riflette le difficoltà ecclesiali che già affioravano e interpellavano i credenti delle stesse origini cristiane.

Come nelle altre lettere pastorali, anche in questo secondo scritto a Timoteo molti studiosi hanno intravisto il linguaggio e l’opera di un discepolo di Paolo che celebra la grandezza, evoca gli ultimi moniti e la fine del suo maestro. Rimane, comunque, indiscussa l’“ispirazione” divina della lettera che, tra l’altro, ci offre, proprio sul tema delle sacre Scritture ispirate da Dio, una considerazione molto importante, spesso usata nella storia della tradizione e della teologia cristiana come autorevole testo di riferimento (3,14-17).

Non mancano, dunque, accanto alle note pastorali molto concrete riguardanti la vita della Chiesa, anche riflessioni di grande intensità, soprattutto sul tema della salvezza operata da Cristo nel mistero pasquale: ad essa siamo tutti chiamati attraverso una fede fruttuosa e un costante impegno morale (1,9-10, 2,8-10).

Nota Finale

Questa seconda lettera a Timoteo, scritta da Roma quando Paolo sente ormai vicina la sua fine, assume quasi la forma di un “testamento”, che richiama abbastanza chiaramente il discorso di addio tenuto dall’apostolo a Mileto, davanti agli anziani della Chiesa di Efeso e riferito da Luca nel libro degli Atti. Queste affinità depongono in favore dell’origine paolina della lettera. Anche il tono e i contenuti sono molto personali: richiami alla vocazione apostolica e al legame di grazia e di storia col Cristo crocifisso e risorto; inviti al coraggio della testimonianza di fronte alle continue persecuzioni e ai falsi maestri; toccante accenno al proprio martirio imminente: insomma, un vero e proprio “testamento spirituale” lasciato da Paolo al suo discepolo e, attraverso lui, a tutti coloro che, avendo letto il suo epistolario, “attendono con amore la manifestazione del Signore”.